Autore Topic: Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)  (Letto 16221 volte)  Share 

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Offline Artem Dzyuba

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #80 il: 25 Settembre, 2015, 10:22:45 am »
Il punto è che se ne approfittano tutti in un sistema del genere, da coloro che comandano, a quelli che devono mettere solo le formalità, come accadeva in Romania, URSS e soprattutto Germania Est.

Giggì, io preferisco che decidano tutti, piuttosto che immettermi in un sistema di perenni prepotenze e ricatti.

Tu dirai: "perchè in uno stato occidentale non ci sono prepotenze?". Assolutamente sì, ma quantomeno non per comprare il latte di soia al posto di quello intero!
In Vietnam riempiono i piatti di glutammato, perchè manca qualsiasi altro condimento, dico solo questo.
Non dovremmo mai augurarci che decida la massa,non scherziamo proprio, perchè peggio di questa distopia non c'è nulla.
Adda venì Baffone!

Offline IlGeneraleNero

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #81 il: 25 Settembre, 2015, 10:52:43 am »
Era per dire che se l'umanità non prova a spezzare le catene non ne usciremo mai.
Ti voglio fare un esempio: ci hanno venduto i centri commerciali come qualcosa di fresco, comodo e moderno. Qualcosa che potesse offrire lavoro e passeggiatina con aria condizionata.
Con l'aiuto della politica, hanno aperto dappertutto. Il risultato? Se una volta volevi aprire il negozietto in centro, l'economia girava e pure il piccolo poteva godersi il posto al sole. Ora, invece, avendo spostato la gente verso questi capannoni, il piccolo o fallisce nel centro con la sua puteca, o va a lavorare in quel capannone a 800€ al mese o fa il disoccupato.
Questo significa che uno guadagna a strafottere a discapito della collettività. E sono sempre gli stessi che "diversificano gli investimenti".
E ce lo chiavano in culo a me e a te.
Strunz. Non a te, ma a Leclerc.

ma perchè vuoi interrompere la catena, cioè c'è gente che investe e crea occupazione e tu vuoi interrompere la catena? Poi vi lamentate che la fatica non ci sta ...

I centri commerciali sono una devianza che andrebbe eliminata, ma qui entra in gioco anche la malavita ed il riciclaggio di soldi sporchi ... ma anche questo è un discorso a parte

Qualche inesattezza c'è.
Non guadagnano a strafottere perchè molti falliscono e spesso cambiano gestione, quindi questo uso indiscriminato si ritorce anche contro di loro.
Chiude il negozietto che ha merce scadente, chi vende roba buona non teme concorrenza

Stiamo sempre lì, se lavori bene i soldi li fai, se lavori male no
“La prima volta che ti ho vista sai, di un calcio di altri tempi mi innamorai, son qui in curva a cantare perchè da quel momento ci sei soltanto te...chiudo gli occhi e penso che passa il tempo passa insieme a te quando un giorno morire dovro' voglio portare in cielo i miei color…!” by ULTRAS L'AQUILA

Offline IlGeneraleNero

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #82 il: 25 Settembre, 2015, 10:56:29 am »
Bellissimo il discorso del generale che parla di dottrina comunista superata e vetusta e poi fa un ragionamento in pieno stile feudalesimo :asd:
Poi la favola del piccolo imprenditore che investe soldi, sudore e sangue da spiattellare in faccia al comunista e' proprio l'aspetto piu bieco e vomitevole della propaganda capitalista puah

esempi esempi, fai qualche esempio ... così restano parole al vento
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Offline TOTORE-RASTAMAN

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #83 il: 25 Settembre, 2015, 11:19:12 am »
esempi esempi, fai qualche esempio ... così restano parole al vento
Prendi gli agnelli: chi di loro, senza essere figli, nipoti e pronipoti di papà, si è fatto il mazzo a tarallo al punto tale da meritare il suo conto in banca?
Lapo a parte, ovviamente....
:look:

Offline GeppiGeppi

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #84 il: 25 Settembre, 2015, 11:24:47 am »
A me fa ridere come il comunismo sia un concetto superato, ma lo schiavismo no.

Ndё she ulkun e grekun, vrahj grekun e le ulkun. (Proverbio albanese)
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Offline IlGeneraleNero

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #85 il: 25 Settembre, 2015, 11:27:28 am »
azz, e meno male che sarei rimasto io a 200 anni fa....
Per curiosità, mi spieghi quanti operai vengono assunti nell'high frequency trading, a parte quelli che stendono i cavi per le intranet veloci della bloomberg? Lo sai, ovviamente, quale fetta dell'attuale ricchezza viene prodotta da questo settore?
Giusto per la cronaca, le proprietà delle multinazionali sono in mano ai fondi per cui il capitalismo ha già eliminato la figura del "padrone" da almeno 40 anni eppure il lavoro ci esce comunque. Anzi, poiché la maggior parte dei fondi non sono altri che i contributi investiti in pacchetti diversificati, paradossalmente i lavoratori sono anche i padroni di loro stessi, ovvero esattamente ciò che prevedeva il modello cooperativo sovietico con la differenza che la maggior parte dei ricavi di questi fondi se li pappano assicurazioni e finanziarie che raccolgono i capitali.

Totò, le ose funzionano così ..

Qualcuno finanza un sistema di produzione (azienda, fabbrica, negozio, ecc) che per funzionare ha bisogno di gente che lavora e deve essere regolarmente retribuita.
La retribuzione è commisurata alle effettive competenze e va a scalare a partire dal finanziatore fino all'ultimo degli impiegati.

Poi chi lavora di più e chi di meno dipende da mille cose, più si lavora e più le cose vanno bene, se qualcuno non lavora, sia il titolare sia qualche dipendente, il sistema viene meno

Questo è quanto, se conosci un sistema migliore per guadagnare faccelo presente, fino ad ora ho letto solo tanche chiacchiere ma nessuno mi ha saputo spiegare uno stipendio da dove deve uscire ...
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #86 il: 25 Settembre, 2015, 11:29:40 am »
Prendi gli agnelli: chi di loro, senza essere figli, nipoti e pronipoti di papà, si è fatto il mazzo a tarallo al punto tale da meritare il suo conto in banca?
Lapo a parte, ovviamente....
:look:

cominciamo a stabilire che tutti gli Agnelli hanno cominciato col lavorare in fabbrica in mezzo agli altri operai per capire come funzionavano le cose ... dopo di che non c'è solo il lavoro manuale ma c'è anche quello intellettuale che ha lo stesso valore ... tra l'altro non mi sembra che tu vada a spaccare pietre nelle miniere
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Offline calvin

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #87 il: 25 Settembre, 2015, 11:33:06 am »
C'est entendu le hais le règne des bourgeois
Le règne des flics et des prétres
Mais le hais plus eneore l'homme qui ne le hait pas
Comme moi de toutes ses forces..



Uagliu sprecarci dialettica, coi fasci, è un errore di base  :sisi: :sisi: :sisi: :sisi:
fare sesso con le proprie opinioni rende più ciechi che farsi le seghe!

Offline IlGeneraleNero

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #88 il: 25 Settembre, 2015, 11:34:45 am »
A me fa ridere come il comunismo sia un concetto superato, ma lo schiavismo no.

ma che intendi per schiavismo, voi vi dovete spiegare con degli esempi, ste parole a cazzo così non servono a niente ...

di chi parli del nero che coglie le pummarole a 3 euro a ora? Benissimo, vai dal caporale e lo schiaffi in galera senza manco farlo fiatare. Lo fai? No, e perchè? Perchè dietro c'è la malavita ...
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #89 il: 25 Settembre, 2015, 11:37:16 am »
Totò, le ose funzionano così ..

Qualcuno finanza un sistema di produzione (azienda, fabbrica, negozio, ecc) che per funzionare ha bisogno di gente che lavora e deve essere regolarmente retribuita.
La retribuzione è commisurata alle effettive competenze e va a scalare a partire dal finanziatore fino all'ultimo degli impiegati.

Poi chi lavora di più e chi di meno dipende da mille cose, più si lavora e più le cose vanno bene, se qualcuno non lavora, sia il titolare sia qualche dipendente, il sistema viene meno

Questo è quanto, se conosci un sistema migliore per guadagnare faccelo presente, fino ad ora ho letto solo tanche chiacchiere ma nessuno mi ha saputo spiegare uno stipendio da dove deve uscire ...
Un certo signore tedesco lo ha spiegato per bene tempo fa....
Spoiler
IL CAPITALE

LIBRO I

SEZIONE VII

IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE

CAPITOLO 24
LA COSIDDETTA ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

1. L’ARCANO DELL’ACCUMULAZIONE ORIGINARIA.
Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale, Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione «originaria» («previous accurnulation» in A. Smith) precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico.

Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’in circa la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà de/la gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare. Il signor Thiers per esempio sminuzza ancora ai francesi che una volta erano così intelligenti, tali insipide bambinate con tutta la serietà e solennità dell’uomo di Stato, allo scopo di difendere la p r o p r i é t é. Ma appena entra in ballo la questione della proprietà, diventa sacro dovere tener fermo al punto di vista dell’abbiccì infantile come unico valido per tutte le classi d’età e tutti i gradi di sviluppo. Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e « lavoro » sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per «questo anno». Di fatto i metodi del l’accumulazione originaria sono tutto quel che si vuole fuorché idillici.

Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati.

Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare « originario » perchè costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione d esso corrispondente.

La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella.

Il produttore immediato, l’operaio, ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di forza-lavoro, che porta la sua merce ovunque essa trovi un mercato, l’operaio ha dovuto inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni, ai loro ordinamenti sugli apprendisti e sui garzoni e all’impaccio delle loro prescrizioni per il lavoro. Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neo affrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco.

I capitalisti industriali, questi nuovi potentati, hanno dovuto per parte loro non solo soppiantare i maestri artigiani delle corporazioni, ma anche i signori feudali possessori delle fonti di ricchezza. Da questo lato l’ascesa dei capitalisti si presenta come frutto di una lotta vittoriosa tanto contro il potere feudale e contro i suoi rivoltanti privilegi, quanto contro le corporazioni e contro i vincoli posti da queste al libero sviluppo della produzione e al libero sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Tuttavia, i cavalieri dell’industria riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada soltanto sfruttando avvenimenti dei quali erano del tutto innocenti. Essi si sono affermati con mezzi altrettanto volgari di quelli usati un tempo dal liberto romano per farsi signore del proprio patrono.

Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore.

La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di tale asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico.

 Per comprenderne il corso non abbiamo affatto bisogno di rifarci molto indietro. Benché i primi inizi della produzione capitalistica si incontrino sporadicamente fin dai secoli XIV e XV in alcune città del Mediterraneo, l’era capitalistica data solo dal secolo XVI.  Dov’essa entra in scena, l’abolizione della servitù della gleba è da lungo tempo compiuta e già da parecchio tempo va impallidendo quella che è la gloria del Medioevo, l’esistenza cioè di città sovrane.

Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica[189].

2. ESPROPRIAZIONE DELLA POPOLAZIONE RURALE E SUA ESPULSIONE DALLE TERRE.
Nell’ultima parte del secolo XIV la servitù della gleba era di fatto scomparsa in Inghilterra. L’enorme maggioranza della popolazione[190] consisteva allora, e ancor più nel secolo XV, di liberi contadini autonomi, sotto qualunque insegna feudale potesse esser nascosta la loro proprietà. Il libero fittavolo aveva soppiantato nei grandi fondi signorili il bailiff (castaldo) anticamente anch’egli servo della gleba. Gli operai salariati dell’agricoltura consistevano in parte di contadini che valorizzavano il loro tempo libero lavorando presso i grandi proprietari fondiari, in parte di una classe di veri e propri operai salariati, indipendente e poco numerosa tanto in assoluto che in via relativa. Anche questi. ultimi erano, oltre che salariati, di fatto contadini indipendenti in quanto veniva loro assegnato, oltre al salario, terreno arabile di quattro e più acri assieme a cottages. Inoltre essi godevano assieme ai contadini veri e propri, dell’usufrutto delle terre comunali, sulle quali pascolava il loro bestiame e che offrivano loro anche il materiale per il fuoco: legna, torba, ecc.[191], In tutti i paesi d’Europa la produzione feudale è caratterizzata dalla spartizione delle terre fra il maggior numero possibile di contadini obbligati. La potenza del signore feudale, come quella di ogni sovrano, non poggiava sulla lunghezza del registro delle sue rendite, ma sul numero dei suoi sudditi, e questo dipendeva dal numero dei coltivatori autonomi[192]. Benché quindi il suolo inglese venisse diviso, dopo la conquista normanna, in baronie gigantesche, una sola delle quali includeva spesso 900 delle antiche signorie anglosassoni, esso era disseminato di piccoli poderi di contadini, interrotti solo qua e là da fondi signorili di una certa entità. Tale situazione, accompagnata dalla fioritura delle città che contraddistingue il secolo XV, consentì quella ricchezza popolare che il cancelliere Fortescue illustra con tanta eloquenza nel suo De Laudibus Legum Angliae, ma escludeva la ricchezza capitalistica.

Il preludio del rivolgimento che creò il fondamento del modo di produzione capitalistico si ha nell’ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni del XVI. Lo scioglimento dei seguiti feudali che, come nota esattamente Sir James Steuart, «dappertutto riempivano inutilmente casa e castello», gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari eslege. Benché il potere regio, anch’esso prodotto dello sviluppo della borghesia, con i suoi sforzi per raggiungere la sovranità assoluta, affrettasse con la forza lo scioglimento di quei seguiti, non ne fu l’unica causa. Piuttosto, il grande signore feudale, in tracotante opposizione alla monarchia e al parlamento, creò un proletariato incomparabilmente più grande scacciando con la forza i contadini dalle terre sulle quali essi avevano lo stesso, titolo giuridico feudale, e usurpando le loro terre comuni. In Inghilterra in particolare l’impulso immediato a quest’azione fu dato dalla fioritura della manifattura laniera fiamminga e dal corrispondente aumento dei prezzi della lana. Le grandi guerre feudali avevano inghiottito la vecchia nobiltà feudale, e la nuova era figlia del proprio tempo pel quale il denaro era il potere dei poteri. Quindi la sua parola d’ordine fu: trasformare i campi in pascoli da pecore. Lo Harrison, nella sua Description of England. Prefixed to Holinshed’s Chronicles, descrive come l’espropriazione dei piccoli contadini manda in rovina il paese. « What care our great incroachers! » (Che cosa gliene importa ai nostri grandi usurpatori !). Le abitazioni dei contadini e i cottages degli operai agricoli vennero abbattuti con la violenza o abbandonati alla lenta rovina. « Se », dice Harrison, « si vorranno confrontare i vecchi inventari di ogni castello, si troverà che sono scomparse innumerevoli case e innumerevoli piccole proprietà contadine, che la terra nutre molto meno gente, che molte città sono decadute, benché ne fioriscano alcune nuove... Di città e villaggi distrutti per farne pasture per le pecore, e dove rimangono solo ancora le case dei signori, potrei dire parecchio». Le lamentele di quelle vecchie cronache sono sempre esagerate, ma delineano con precisione l’impressione fatta sui con temporanei dalla rivoluzione avvenuta nei rapporti di produzione. Un confronto fra gli scritti del cancelliere Fortescue e quelli di Tommaso Moro ci darà un’idea chiara dell’abisso fra il secolo XV e il secolo XVI. Dall’età dell’oro, come dice giustamente il Thornton, la classe operaia inglese è precipitata senza alcuna transizione in quella del ferro.

La legislazione era spaventata dinanzi a questo rivolgimento. Non era ancora giunta a quell’alto livello d’incivilimento nel quale « Wealth of Nation» ( Ricchezza della nazione.) cioè formazione del capitale e sfruttamento senza scrupoli e impoverimento della massa del popolo vengono considerati l’ultima Thule di ogni saggezza politica. Nella sua storia di Enrico VII, Bacone dice: « Intorno a quel tempo (1489) aumentarono le lamentele sulla trasformazione di terreno arabile in pascoli (per le pecore ecc.), facilmente curati da pochi pastori; e le affittanze a tempo, a vita e a disdetta annua (delle quali viveva una gran parte degli yeomen ( Piccoli contadini indipendenti.)) vennero trasformate in tenute direttamente gestite dal proprietario fondiario. Questo provocò una decadenza della popolazione e di conseguenza un declino delle città, delle chiese, delle decime... Mirabile fu in quel tempo la saggezza del re e del parlamento nella cura di questa sciagura... Essi presero misure contro questa usurpazione spopolatrice delle terre comuni (depopulating inclosures) e contro la coltura prativa, altrettanto spopolatrice (depopulating pasture) che la seguiva passo passo». Un Atto di Enrico VII, 1489, c. 19, proibì la distruzione di ogni abitazione di contadini che fosse legata a almeno venti acri di terreno. In un Atto, 25, di Enrico VIII viene rinnovata la stessa legge. Fra l’altro vi si dice che «vanno accumulandosi in poche mani molte affittanze e grandi mandrie di bestiame, specialmente pecore, con il che le rendite fondiarie sono molto cresciute e la aratura dei campi (tillage) è molto decaduta, chiese e case sono state abbattute, e una massa stupefacente di popolazione è stata privata della possibilità di mantenere se stessa e le famiglie». Quindi la legge ordina la ricostruzione degli edifici di fattorie distrutti, fissa quale dev’essere il rapporto fra terra da grano e terra da pascolo, ecc. Un Atto del 1533 lamenta che molti proprietari posseggano 24.000 pecore, e limita il numero di queste ultime a 2000[193]. Tanto le lamentele popolari quanto la legislazione contro l’espropriazione dei piccoli fittavoli e contadini, legislazione che dura per 150 anni da Enrico VII in poi, rimasero senza effetto. Bacone ci rivela, senza accorgersene, il segreto di questa inefficacia. « L’Atto di Enrico. VII», dice nei suoi Essays, civil and moral, sezione 29, «fu profondo e ammirevole, poichè creò affittanze e edifici agricoli di una determinata misura normale, cioè mantenne per esse una proporzione di terra che dava la possibilità di far crescere sudditi di ricchezza sufficiente e di condizione non servile, e di mantenere l’aratro in mano di proprietari, non di mercenari» (to keep the plough in the hands of the owners and not hirelings)193a. Ma, viceversa, quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale. Durante questo periodo di transizione la legislazione cercò di mantenere anche i quattro acri di terra annessi al cottage dell’operaio salariato agricolo, e gli proibì di accogliere inquilini nel suo cottage. Ancora nel 1627, sotto Carlo I, Roger Crocker di Fontmill venne condannato per avere costruito nel manor ( Fondo dominicale ) di Fontmill un cottage senza i quattro acri di terra come suo annesso permanente; ancora nel 1638, sotto Carlo I, venne nominata una commissione regia per imporre con la forza l’esecuzione delle vecchie leggi, specialmente anche di quella sui quattro acri di terra; ancora Cromwell proibì di costruire case entro una cerchia di quattro miglia da Londra senza munirle di quattro acri di terra. Ancora nella prima metà del secolo XVIII vi sono lamentele quando il cottage dell’operaio agricolo non ha il suo annesso di 1-2 acri. Oggi l’operaio agricolo è fortunato se il cottage è fornito di un orticello, o se gli è possibile prendere in affitto, ben lontano di lì, qualche pertica di terreno. «Padroni dei fondi e fittavoli», dice il dott. Hunter, «agiscono qui di pieno accordo. Pochi acri annessi al cottage renderebbero troppo indipendente l’operaio»[194].
Nuovo e terribile impulso ebbe il processo d’espropriazione forzosa della massa della popolazione nel secolo XVI, dalla Riforma e al seguito a questa, dal colossale furto dei beni ecclesiastici. Al momènto della Riforma la Chiesa cattolica era proprietaria feudale d’una gran parte del suolo inglese. La soppressione dei conventi ecc, ne gettò gli abitanti nel proletariato. I beni ecclesiastici vennero donati in gran parte a rapaci favoriti regi o venduti a prezzo irrisorio a fittavoli e cittadini speculatori, che scacciavano in massa gli antichi fittavoli ereditari dei conventi riunendo i loro poderi in grandi unità. La proprietà che la legge garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime ecclesiastiche venne tacitamente confiscata[195] «Pauper ubique jacet » (Dappertutto ci sono poveri), esclamò la regina Elisabetta dopo aver fatto il giro dell’Inghilterra. Infine, nel quarantatreesimo anno del suo regno, si fu costretti a riconoscere ufficialmente il pauperismo mediante l’introduzione della tassa dei poveri. «Gli autori di questa legge si vergognavano di esporne i motivi e quindi la mandarono pel mondo, contro ogni tradizione, senza nessun   p r e a m b l e (motivazione della presentazione)»[196]. Sotto Carlo I, legge 4, anno 16, venne dichiarata perpetua e di fatto ebbe nuova formulazione, più dura, soltanto nel 1834[197]. Questi effetti immediati della Riforma non sono stati quelli più duraturi: la proprietà ecclesiastica costituiva il baluardo religioso dell’antico ordinamento della proprietà fondiaria, e caduta la proprietà ecclesiastica, neppur questo ordinamento si potè più sostenere[198].

Ancora negli ultimi decenni del secolo XVII la yeomanry, i contadini indipendenti, era più numerosa della classe dei fittavoli. La yeomanry aveva costituito la forza principale di Cromwell e, come confessa perfino il Macaulay, si trovava in favorevole contrasto con i nobilotti rurali ubriaconi e coi loro servitori, i preti di campagna, che dovevano prender in moglie La «serva favorita» padronale. E anche gli operai agricoli erano ancora comproprietari dei beni comunali. Nel 1750 circa la yeomanry era scomparsa[199] e negli ultimi decenni del secolo XVIII era scomparsa l’ultima traccia di proprietà comunale dei coltivatori. Qui prescindiamo dai motivi propulsori della rivoluzione agricola che hanno carattere puramente economico: qui cerchiamo le sue leve violente.

Sotto la restaurazione degli Stuart i proprietari fondiari riuscirono a imporre in forma legale una usurpazione che sui continente fu attuata dappertutto anche senza lungaggini giuridiche. Essi abolirono la costituzione feudale del suolo, cioè scaricarono sullo Stato gli obblighi di servizio che essa comportava, «indennizzarono» Io Stato per mezzo di tasse sui contadini e sulla restante massa della popolazione, rivendicarono la proprietà privata moderna su quei fondi, sui quali possedevano soltanto titoli feudali, e si degnarono infine di concedere benignamente quelle leggi sul domicilio (laws of settlement) le quali, mutatis mutandis, ebbero sui coltivatori inglesi lo stesso effetto che l’editto del tartaro Boris Godunov ebbe sui contadini russi.

La «glorious revolution» (rivoluzione gloriosa) portò al potere, con Guglielmo III di Orange[200], i facitori di plusvalore, fondiari e capitalistici, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta[201]. Tutto ciò avveniva senza osservare minimamente l’etichetta legale. I beni statali così fraudolentemente appropriati costituiscono assieme al frutto del furto dei beni della chiesa, questo per la parte che non era andata perduta durante la rivoluzione repubblicana, La base degli odierni domini principeschi dell’oligarchia inglese[202]. I capitalisti borghesi favorivano l’operazione, fra l’altro allo scopo di trasformare i beni fondiari in un puro e semplice articolo di commercio, di estendere il settore della grande impresa agricola, di aumentare il loro approvvigionamento di proletari eslege provenienti dalle campagne, ecc. Inoltre, la nuova aristocrazia fondiaria era alleata naturale della nuova bancocrazia, dell’alta finanza, allora appena uscita dal guscio, e del grande manifatturiero che allora si appoggiava ai dazi protettivi. La borghesia inglese agì per il suo interesse con la stessa giustezza dei borghesi delle città svedesi che, viceversa, in pieno accordo col loro baluardo economico, i contadini, appoggiarono i re nella loro azione violenta di riacquisto delle terre della corona contro l’oligarchia (dal 1604, e più tardi sotto Carlo X e Carlo XI).

La proprietà comune — completamente distinta dalla proprietà statale che abbiamo or ora considerato — era una antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combattè, invano, per 150 anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo, benché i grandi fittavoli continuino ad applicare, per giunta, anche i loro piccoli metodi privati indipendenti[203], La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni), in altre parole, decreti per mezzo dei quali i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo; sono decreti di espropriazione del popolo. Sir F. M. Eden confuta la sua astuta arringa da avvocato, nella quale cerca di presentare la proprietà comune come proprietà privata dei grandi proprietari fondiari subentrati a quelli feudali, chiedendo egli stesso un «Atto generale del parlamento per la recinzione delle terre comuni », ammettendo dunque che è necessario un colpo di Stilto parlamentare per trasformare la proprietà comune in proprietà privata, e, d’altra parte, chiedendo al potere legislativo un « risarcimento » per i poveri espropriati[204], Mentre agli yeomen indipendenti subentravano tenants-at-will, piccoli fittavoli con disdetta annua, banda servile e dipendente dall’arbitrio dei landlors, s’ingrossarono quelle grandi affittanze che nel secolo XVIII si chiamavano «affittanze di capitale»[205] o «affittanze di mercanti»[206], e «liberavano » la popolazione rurale facendone proletariato per l’industria; e le aiutò ad ingrossarsi, oltre al furto dei beni dello Stato, proprio in particolare il furto della proprietà comunale condotto sistematicamente.

Tuttavia il secolo XVIII non ha compreso l’identità fra ricchezza nazionale e povertà popolare così a fondo come il secolo XIX. Quindi nella letteratura economica di quel tempo si ha una accesissima polemica sulla «Inclosure of Commons ». Riporto alcuni passi dalla gran massa di materiale che ho davanti, poichè la situazione vi è resa vividamente e intuitivamente.

«In molte parrocchie dello Hertfordshire», scrive una penna indignata, «ventiquattro fattorie che contavano in media da 50 a 150 acri l’una, sono state fuse in tre fattorie»[207]. «Nel Northamptonshire e nel Lincolnshire la recinzione delle terre comuni ha avuto luogo su larga scala, e la maggior parte dei nuovi fondi signorili sorti con le recinzioni sono ora trasformati in pascoli; in conseguenza di ciò molti fondi signorili non fanno arare neppure cinquanta acri, dove prima se ne aravano 1500... Rovine di vecchie case di abitazione, di granai, stalle ecc. » sono l’unica traccia dei vecchi abitanti. «In parecchi luoghi un centinaio di case e di famiglie si è ridotto.., a otto o dieci... Nella maggior parte delle parrocchie dove le recinzioni sono state introdotte solo da quindici o vent’anni, i proprietari fondiari sono pochissimi in confronto della gente che lavorava la terra quando

vi erano i campi aperti. Non è cosa insolita vedere che quattro o cinque ricchi allevatori di bestiame usurpano grandi signorie da poco recinte che prima si trovavano in mano a 20-30 fittavoli e di altrettanti proprietari minori e contadini. Tutti costoro sono stati gettati fuori dei loro possessi assieme alle famiglie, oltre a molte altre famiglie che trovavano occupazione e sostentamento per mezzo loro»[208]. Non solo la terra soda, ma spesso la terra coltivata o in comune o in cambio di un dato pagamento alla comunità, veniva annessa da parte del landlord confinante col pretesto della recinzione. «Qui parlo della recinzione di campi e terreni aperti che sono già in coltivazione. Anche gli scrittori che difendono le inclosures ammettono che queste ultime aumentano il monopolio delle grandi fattorie, fanno salire i prezzi dei mezzi di sussistenza e producono lo spopolamento... e anche la recinzione di terre deserte, come viene condotta oggi, ruba al povero una parte dei suoi mezzi di sussistenza e fa ingrossare fattorie che sono già troppo grandi»[209]. Il dott. Price dice: « Se la terra capita in mano a pochi grossi fittavoli, i piccoli fittavoli (che poco più sopra egli aveva designato come « una moltitudine di piccoli proprietari e piccoli fittavoli che mantengono sè e le proprie famiglie col prodotto della terra da essi coltivata, con pecore, pollame, maiali, ecc. che essi mandano sulle terre della comunità, cosicché hanno poche occasioni di fare acquisti di mezzi di sussistenza ») vengono trasformati in gente che deve guadagnare la propria sussistenza lavorando per altri e che è costretta ad andar al mercato per tutte le cose di cui ha bisogno... Forse si fa più lavoro, perchè domina una maggiore costrizione di farlo... Cresceranno città e manifatture, perchè viene cacciata nelle città e nelle manifatture più gente che cerca occupazione. Questa è la maniera con cui opera naturalmente la concentrazione delle fattorie e con cui da molti anni ha operato effettivamente in questo regno»[210]. Egli così riassume l’effetto complessivo delle recinzioni: «Nell’insieme la situazione delle classi inferiori della popolazione è peggiorata quasi sotto ogni punto di vista; i proprietari fondiari e fittavoli minori sono stati abbassati allo stato di giornalieri e mercenari; e allo stesso tempo è diventato più difficile guadagnarsi la vita in questa situazione[211].

Di fatto l’usurpazione delle terre comuni e la concomitante rivoluzione agricola ebbero un effetto così acuto sugli operai agricoli che, secondo lo stesso Eden, fra il 1765 e il 1780 il loro salario cominciò a scendere al di sotto del minimo e ad esser integrato mediante l’assistenza ufficiale ai poveri. Il loro salario, egli dice, « era sufficiente ormai appena per i bisogni elementarissimi della vita ».

Sentiamo ancora, per un momento, un difensore delle inclosures e avversario del dott. Price: « Non è una deduzione esatta che si abbia spopolamento perchè non si vede più gente sciupare il proprio lavoro in campi aperti... Se dopo la trasformazione dei piccoli contadini in gente che deve lavorare per altri, viene resa liquida una maggiore quantità di lavoro, questo è pur un vantaggio che la nazione (della quale naturalmente non fan parte le persone trasformate) deve augurarsi... Il prodotto sarà maggiore se il loro lavoro combinato sarà adoprato in una sola affittanza; così si forma il plusprodotto per le manifatture, e con ciò le manifatture, che sono una delle miniere d’oro di questa nazione, vengono accresciute in proporzione della quantità di grano prodotta»[212]. La stoica imperturbabilità dell’economista politico nel considerare la spudoratissima profanazione del « sacro diritto della proprietà » e il più grossolano atto di violenza contro le persone, appena siano richiesti per porre le fondamenta del modo di produzione capitalistico, ce la mostra fra gli altri Sir F. M. Eden, che per di più è torysteggiante e « filantropo ». Tutta la serie di rapine, atrocità, tribolazioni del popolo che accompagnano l’espropriazione violenta del popolo dall’ultimo terzo del secolo XV fino alla fine del secolo XVIII, lo induce soltanto alla « confortevole » riflessione conclusiva: « Occorreva stabilire la dovuta proporzione fra terreni arabili e terreni pascolativi. Ancora per tutto il secolo XIV e per la maggior parte del secolo XV c’era un acro di pascolo su 2, 3 e anche 4 acri di arativo. Alla metà del secolo XVI la proporzione si trasformò in 2 acri di pascolo su 2 di arativo, in seguito in 2 acri di pascolo su i acro di arativo, sinché risultò finalmente la dovuta proporzione di 3 acri di pascolo su I acro di arativo».

Nel secolo XIX s’è perduta naturalmente perfino la memoria del nesso fra agricoltura e proprietà comune. Per non parlare neppure di periodi posteriori, quanti farthing di risarcimento ha mai ricevuto la popolazione rurale per i 3.511.770 acri di terre comuni che le sono state tolte fra il 1810 e il 1831 e sono state parlamentarmente regalate ai landlords dai landlords?

L’ultimo grande processo di espropriazione degli agricoltori con la loro espulsione dalle terre è stato infine il cosiddetto clearing of estates (parziale estromissione dei piccoli fittavoli dalle grandi proprietà, che in realtà ha spazzato via gli uomini da quelle). Tutti i metodi inglesi che abbiamo esaminato finora sono culminati nel « clearing ». Come si è visto nella descrizione delle condizioni moderne nella sezione precedente, oggi che non c’è più da spazzar via contadini indipendenti, si continua fino al clearing dei cottages, cosicchè gli operai agricoli non trovano più sulle terre da loro lavorate neppure lo spazio necessario per la propria abitazione. Ma quel che significhi « clearing of estates » in senso proprio lo apprendiamo nella terra promessa dei romanzi moderni, nell’Alta Scozia. Quivi il processo si contraddistingue per il suo carattere sistematico, per la grandezza della scala su cui è compiuto d’un tratto (in Irlanda i proprietari fondiari sono arrivati al punto di spazzar via più villaggi contemporaneamente; nell’Alta Scozia si tratta di superfici estese quanto interi ducati tedeschi) e infine per la forma particolare della proprietà fondiaria sottratta con la truffa.

I celti dell’Alta Scozia erano composti di clan, ognuno dei quali era proprietario del suolo dove si era stabilito. Il rappresentante del clan, il suo capo o « uomo grande » era soltanto proprietario titolare di questo suolo, allo stesso titolo che la regina d’Inghilterra è proprietaria titolare del complesso del suolo nazionale. Quando al governo inglese riuscì di sopprimere le guerre interne di questi « uomini grandi » e le loro continue incursioni nelle pianure della Bassa Scozia, i capi dei clan non abbandonarono affatto il loro antico mestiere di briganti, ma si limitarono a cambiarne la forma. Di propria autorità trasformarono il loro diritto di proprietà titolare in diritto di proprietà privata, e poichè incontrarono resistenza fra la gente dei clan, decisero di cacciarli a viva forza. « È come se un re d’Inghilterra rivendicasse il diritto di cacciar in mare i suoi sud diti », dice il professor Newman[213]. Questa rivoluzione che cominciò in Scozia dopo l’ultima alzata di scudi del pretendente, si può seguire nelle sue prime fasi negli scritti di Sir James Steuart[214] e di James Anderson[215]. Nel secolo XVIII venne contemporaneamente proibita l’emigrazione ai gaelici scacciati dalle campagne, per spingerli con la forza a Glasgow e in altre città manifatturiere[216]. Come esempio del metodo dominante nel secolo XIX[217] basteranno qui i «c I e a r i n g» della duchessa di Sutherland. Costei, istruita nell’economia, appena iniziato il suo governo, risolse di applicare una cura economica radicale e di trasformare in pastura per le pecore l’intera contea, la cui popolazione si era già ridotta attraverso precedenti processi del genere a 15.000 abitanti. Dal 1814 al 1820 questi 15.000 abitanti, all’incirca 3.000 famiglie, vennero sistematicamente cacciati e sterminati. Tutti i loro villaggi furono distrutti e rasi al suolo per mezzo del fuoco, tutti i loro campi furono trasformati in praterie. Soldati britannici vennero comandati a eseguire quest’impresa e vennero alle mani con gli abitanti. Una vecchia morì fra le fiamme della capanna che si era rifiutata di abbandonare. .Così quella dama si appropriò 794.000 acri di terra che da tempi immemorabili apparteneva al clan. Agli abitanti che aveva cacciato assegnò all’incirca 6.000 acri, due acri per famiglia, in riva al mare. Fino a quel momento quei 6.000 acri erano rimasti incolti e non avevano reso nessuna entrata ai proprietari. Nella nobiltà dei suoi sentimenti la duchessa giunse perfino ad affittarli, in media a due scellini e sei pence all’acro, alla gente del clan che da secoli aveva versato il proprio sangue per la famiglia dei Sutherland. E poi divise tutta la terra del clan, che aveva rubato, in 29 grandi pascoli per le pecore, ognuno abitato da una sola famiglia, per lo più servi di fattoria inglesi. Nell’anno 1825 i 15.000 gaelici erano già sostituiti da 131.000 pecore. La parte degli aborigeni gettata sulla riva del mare cercò di vivere di pesca; divennero anfibi e vissero, come dice uno scrittore inglese, metà sul mare metà sulla terra, e con tutto ciò trassero dall’uno e dall’altra solo di che vivere a metà[218].

Ma i bravi gaelici dovevano espiare ancor più duramente la loro idolatria montanara e romantica per gli « uomini grandi » del clan. L’odore del pesce solleticò le narici degli uomini grandi, che vi annusarono qualcosa di profittevole e affittarono la riva del mare ai grandi commercianti di pesce londinesi. I gaelici vennero cacciati per la seconda volta[219].

Alla fine però una parte dei pascoli per le pecore viene ritrasformata in riserva di caccia. Si sa che in Inghilterra non ci sono foreste vere e proprie. La selvaggina nei parchi dei grandi è bestiame domestico costituzionale, grasso come gli aldermen (Consiglieri municipali.) di Londra. Quindi la Scozia è l’ultimo rifugio della « nobile passione ». « Nell’Altopiano », dice il Somers nel 1848, « le boscaglie sono state molto estese. Qui abbiamo, su un fianco di Gaick, la nuova foresta di Glenfeshie e là, sull’altro fianco, la nuova foresta di Ardverikie. Sulla stessa linea ecco il Black Mount, enorme deserto, creato da poco. Da oriente a occidente, dalle vicinanze di Aberdeen fino alle rocce di Oban, abbiamo ora una linea ininterrotta di boschi, mentre in altre parti dell’Altopiano si trovano i nuovi parchi di Loch Archaig, Glengarry, Glenmoriston ecc... La trasformazione delle loro terre in pascoli per le pecore... ha cacciato i gaelici su terre aride. Adesso cervi e caprioli cominciano a sostituire le pecore, e spingono i gaelici in una miseria ancor più schiacciante... Le boscaglie da selvaggina219a non possono coesistere con la popolazione: in ogni caso o le une o l’altra devono cedere il posto. Lasciate crescere i terreni da caccia di numero e di estensione nel prossimo quarto di secolo come in quello ora trascorso, e non troverete più nessun gaelico sulla sua terra natia. Questo movimento fra i proprietari dell’Altopiano è dovuto in parte alla moda, al solletico aristocratico, alla passione per la caccia, ecc.; ma in parte quei proprietari esercitano il commercio della selvaggina con esclusiva mira al profitto. Poichè è un fatto che un appezzamento di terreno montuoso, recinto come riserva di caccia, è in molti casi ben più profittevole che non come pascolo per le pecore... L’amatore, che cerca una riserva di caccia, limita la sua offerta solo a seconda della capacità della sua borsa... Sono state inflitte all’Altopiano sofferenze non meno crudeli di quelle inflitte all’Inghilterra dalla politica dei re normanni. Cervi e caprioli hanno avuto maggiore spazio a disposizione, mentre gli uomini sono stati cacciati in un cerchio sempre più ristretto... Si è rubata al popolo una libertà dopo l’altra... E l’oppressione continua a crescere giorno per giorno. I proprietari perseguono come saldo principio la loro azione di rare fazione e dispersione del popolo, come se si trattasse di una necessità dell’agricoltura, proprio come nelle regioni selvagge d’America e d’Australia vengono spazzati via alberi e sterpaglie: e l’operazione segue il suo andamento tranquillo quasi si trattasse di affari ordinari»[220].

Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege.

3. LEGISLAZIONE SANGUINARIA CONTRO GLI ESPROPRIATI DALLA FINE DEL SECOLO XV IN POI. LEGGI PER L’ABBASSAMENTO DEI SALARI.
Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti «volontari » e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.

In Inghilterra questa legislazione cominciò sotto Enrico VII.

Enrico VIII, 1530: i mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finchè il sangue scorra dal loro corpo; poi giurare solennemente di tornare al loro luogo di nascita oppure là dove hanno abitato gli ultimi tre anni e « mettersi al lavoro » (to put himself to labour). Che ironia crudele! 27 Enrico VIII, viene ripetuto lo statuto precedente, inasprito però da nuove aggiunte. Quando un vagabondo viene colto sul fatto una seconda volta, la pena della frustata deve essere ripetuta e sarà reciso mezzo orecchio; alla terza ricaduta invece il vagabondo dev’essere considerato criminale indurito e nemico della comunità e giustiziato come tale.

Edoardo VI: uno statuto del suo primo anno di governo, 1547, ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone.

Il padrone deve nutrire il suo schiavo a pane e acqua, bevande deboli e scarti di carne a suo arbitrio. Ha il diritto di costringerlo a qualunque lavoro, anche al più ripugnante, con la frusta e con la catena. Se lo schiavo si allontana per 15 giorni, viene condannato alla schiavitù a vita e dev’essere bollato a fuoco sulla fronte o sulla guancia con la lettera S; se fugge per la terza volta, dev’essere giustiziato come traditore dello Stato. Il padrone lo può vendere, lasciare in eredità, affittarlo a terze persone come schiavo, alla stregua di ogni altro bene mobile o capo di bestiame. Se gli schiavi intraprendono qualcosa contro il padrone, anche in tal caso saranno giustiziati. I giudici di pace hanno il compito di far cercare e perseguire i bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato al suo luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto, e adoprato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi. Se il vagabondo dà un luogo di nascita falso, rimarrà per punizione schiavo a vita di quel luogo, dei suoi abitanti o della sua corporazione, e sarà marchiato con una S. Tutte le persone hanno il diritto di togliere ai vagabondi i loro figlioli e di tenerli come apprendisti, i ragazzi fino ai 24 anni, le ragazze fino ai 20. Se scappano, dovranno essere schiavi, fino a quell’età, dei maestri artigiani che possono incatenarli, frustarli, ecc., ad arbitrio. Ogni padrone può metter al collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo un anello di ferro per poterlo conoscere meglio e per esserne più sicuro[221].

L’ultima parte di questo statuto prevede che certi poveri debbano ricevere occupazione presso il luogo o presso gli individui che danno loro da mangiare e da bere e che sono disposti a trovar loro lavoro. Questa specie di schiavi della parrocchia si è conservata in Inghilterra fin al XIX secolo molto inoltrato, col nome di roundsrnen (uomini a disposizione).

Elisabetta, 1572: i mendicanti senza licenza e di più di 14 anni di età debbono essere frustati duramente e bollati a fuoco al lobo dell’orecchio sinistro, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; in caso di recidiva e quando siano al di sopra dei diciotto anni debbono esser.., giustiziati, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; ma alla terza recidiva debbono essere giustiziati come traditori dello Stato, senza grazia. Statuti simili: 18, Elisabetta, c. 13 e 1597221a.

Giacomo I. Una persona che va chiedendo in giro elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I giudici di pace nelle Petty sessions (Tribunali locali.)  sono autorizzati a farla frustare in pubblico e a incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni. Durante l’incarceramento sarà frustata quante volte e nella misura che i giudici di pace riterranno giusta... I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare, debbono essere giustiziati, senza grazia. Queste ordinanze, che hanno fatto legge fino ai primi anni del secolo XVIII, sono state abolite soltanto da 12, Anna, c. 23.

Leggi simili in Francia, dove alla metà del secolo XVII si era stabilito a Parigi un reame dei vagabondi (royaume des truands). Ancora nel primo periodo di Luigi XVI (ordinanza del 13 luglio 1777) ogni uomo di sana costituzione dai sedici ai sessant’anni, se era senza mezzi per vivere e senza esercizio di professione, doveva essere mandato in galera. Analogamente lo statuto di Carlo V dell’ottobre 1537 per i Paesi Bassi, il primo editto degli stati e delle città d’Olanda del 19 marzo 1614, il manifesto delle Province Unite del 25 giugno 1649, ecc.

Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle « leggi naturali della produzione », cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione Capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per « regolare » il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.

La classe degli operai salariati, che è sorta nella seconda metà del secolo XIV, formava allora e nel secolo successivo soltanto un elemento costitutivo molto ristretto dalla popolazione, e la sua posizione aveva una forte protezione nella proprietà contadina autonoma nelle campagne e nell’organizzazione corporativa nelle città. Tanto nelle campagne che nelle città padroni e operai erano socialmente vicini. La subordinazione del lavoro al capitale era solo formale, cioè il modo di produzione stesso non aveva ancora carattere specificamente capitalistico. L’elemento variabile del capitale prevaleva fortemente su quello costante. La richiesta di lavoro salariato cresceva dunque rapidamente ad ogni accumulazione del capitale, mentre l’offerta di lavoro salariato seguiva solo lentamente. Una parte notevole del prodotto nazionale, più tardi trasformata in fondo di accumulazione del capitale, allora passava ancora nel fondo di consumo dell’operaio.

La legislazione sul lavoro salariato, che fin dalla nascita mira allo sfruttamento dell’operaio e gli è sempre egualmente ostile[222] man mano che progredisce, viene inaugurata in Inghilterra dallo Statute of Labourers di Edoardo III 1349. Le corrisponde in Francia l’ordinanza del 1350, promulgata in nome di re Giovanni. Le legislazioni inglese e francese si svolgono parallelamente e sono identiche per il contenuto. Non ritorno sulla parte degli statuti operai che cerca di imporre un prolungamento della giornata lavorativa poichè questo punto è stato già esaminato (capitolo 8., 5).

Lo Statute of Labourers fu promulgato per le insistenti lamentele della Camera dei Comuni. «Prima », dice ingenuamente un tory, « i poveri esigevano un salario così alto da minacciare l’industria e la ricchezza. Ora il salario è così basso da minacciare ancora l’industria e la ricchezza, ma in maniera diversa e forse più pericolosa di prima»[223]. Venne stabilita una tariffa legale dei salari per la città e per la campagna, per il lavoro a cottimo e per quello a giornata. Gli operai rurali devono impegnarsi per un anno, quelli di Città « a mercato aperto ». Viene proibito, pena la prigione, di pagare un salario più alto di quello statutario, ma è punito più gravemente chi riceve il salario più alto che non chi lo paga. Così, ancora nelle sezioni 18 e 19 dello statuto degli apprendisti di Elisabetta viene punito con dieci giorni di prigione chi paga un salario più alto, ma è punito con ventuno giorni chi l’accetta. Uno statuto del 1360 aggravava le pene e autorizzava addirittura il padrone a estorcere lavoro alla tariffa legale mediante costrizione fisica. Tutte le combinazioni, i contratti, giuramenti ecc. coi quali muratori e falegnami si vinco lavano reciprocamente vengono dichiarati nulli. La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave a partire dal secolo XIV fino al 1825, anno dell’abolizione delle leggi contro le coalizioni. Lo spirito dello statuto operaio del 1349 e dei suoi rampolli risplende chiaro nel fatto che viene imposto in nome dello Stato un massimo di salario, ma non, per carità!, un minimo.

Nel secolo XVI la situazione degli operai era, come si sa, molto peggiorata. Il salario in denaro saliva, ma non in proporzione del deprezzamento del denaro e del corrispondente aumento del prezzo delle merci. In realtà dunque il salario calava. Tuttavia le leggi miranti a tenerlo basso perduravano, e perdurava il taglio dell’orecchio e il bollo a fuoco per coloro «che nessuno voleva prendere a servizio ». Con lo statuto degli apprendisti 5, Elisabetta, c. 3, i giudici di pace ebbero il potere di stabilire certi salari e di rnodificarli a seconda delle stagioni e dei prezzi delle merci. Giacomo I estese questo regolamento del lavoro anche ai tessitori, filatori e a tutte le possibili categorie di operai[224] ; Giorgio II estese le leggi contro le coalizioni operaie a tutte le manifatture.

Nel periodo manifatturiero propriamente detto il modo di produzione capitalistico era divenuto abbastanza forte da render tanto inattuabile quanto superflua una regolamentazione legale del salario, ma non si volle rinunciare alle armi del vecchio arsenale in caso di necessità. Ancora 8, Giorgio II, proibiva un salario giornaliero superiore ai 2 scellini 7 pence e mezzo ai garzoni dei sarti di Londra e dintorni, se non nel caso di lutto generale; ancora 13, Giorgio III, c. 68, affidava ai giudici di pace la regolamentazione del salario dei tessitori di seta; ancora nel 1796 ci volevano due giudici dei tribunali superiori per decidere se gli ordini dei giudici di pace sul salario lavorativo fossero validi anche per operai non agricoli; ancora nel 1799 un Atto del parlamento confermava che il salario degli operai delle miniere di Scozia era regolato da uno statuto di Elisabetta e da due Atti scozzesi del 1661 e del 1671. Ma un incidente senza precedenti alla Camera bassa inglese dimostrò quanto la situazione fosse rovesciata. Alla Camera dei Comuni, che da più di 400 anni aveva fabbricato leggi sul massimo che il salario non doveva assolutamente superare, il Whitbread propose nel 1796 un minimo di salario legale per gli operai giornalieri agricoli. Il Pitt si oppose, ma ammise che la « situazione dei poveri era crudele (cruel) ». Finalmente nel 1813 vennero abolite le leggi sulla regolamentazione dei salari. Esse erano un’anomalia ridicola, da quando il capitalista regolava la fabbrica con la sua legislazione privata e faceva integrare con la tassa dei poveri il salario dell’operaio agricolo fino al minimo indispensabile. Le disposizioni degli statuti operai sui contratti fra padroni e operai, sui licenziamenti a termine, ecc., che consentono- la querela per rottura di contratto solo in un tribunale civile se contro il padrone, ma in tribunale penale se contro l’operaio, rimangono ancora in pieno vigore anche oggi.

Le atroci leggi contro le coalizioni sono cadute nel 1825 di fronte all’atteggiamento minaccioso del proletariato. Però caddero solo in parte. Alcuni bei residui dei vecchi statuti sono scomparsi solo nel 1859. E finalmente l’Atto del parlamento del 29 giugno 1871 pretende di eliminare- le ultime tracce di quella legislazione di classe con il riconoscimento legale delle Trades’ Unions. Ma un Atto del parlamento della stessa data (An act to amend the criminal law relating to violence, threats and molestation) ristabiliva di fatto la vecchia situazione in nuova forma. Con questo giuoco di prestigio parlamentare i mezzi dei quali gli operai possono servirsi in uno sciopero o in un lock-out (sciopero dei fabbricanti coalizzati con contemporanea chiusura delle fabbriche) venivano di fatto sottratti al diritto comune e posti sotto una legislazione penale eccezionale, la cui interpretazione spettava ai fabbricanti stessi nella loro qualità di giudici dì pace. La stessa Camera dei Comuni e lo stesso signor Gladstone avevano con la nota onestà presentato due anni prima un disegno di legge per l’abolizione di tutte le leggi penali d’eccezione contro la classe operaia. Ma il disegno non fu fatto arrivare oltre la seconda lettura, e in tal modo la cosa fu trascinata per le lunghe finchè alla fine il « grande partito liberale » trovò, per mezzo di un’alleanza con i tories, il coraggio di volgersi decisamente contro quello stesso proletariato che l’aveva condotto al potere. Non soddisfatto di questo tradimento, il «grande partito liberale » permise ai giudici inglesi, sempre compiacenti al servizio delle classi dominanti, di riesumare le leggi perente sulle «cospirazioni» e di applicarle alle coalizioni operaie. Si vede dunque che il parlamento inglese ha rinunciato solo di controvoglia e sotto la pressione delle masse alle leggi contro gli scioperi e le Trades’ Unions, dopo aver tenuto esso stesso, per cinque secoli, con egoismo spudorato, la posizione di una Trade Union permanente dei capitalisti contro gli operai.

Fin dall’inizio della tempesta rivoluzionaria la borghesia francese osò sottrarre agli operai il diritto d’associazione che si erano appena conquistato. Con decreto del 14 giugno 1791 la borghesia dichiarò che ogni coalizione operaia era un « attentato contro la libertà e la dichiarazione dei diritti dell’uomo », punibile con 500 livres di multa e con la privazione dei diritti civili attivi per un anno[225], Questa legge che costringe, con una misura di polizia statale, entro limiti comodi al capitale la lotta di concorrenza fra capitale e lavoro, è sopravvissuta a rivoluzioni e a cambiamenti dinastici. Perfino il Terrore la lasciò intatta. Solo di recente è stata cancellata dal codice penale Non c’e niente di più caratteristico del pretesto di questo colpo di Stato borghese. Dice il relatore, Le Chapelier: « Benché sia desiderabile che il salario diventi un po’ più elevato di quello che è in questo momento, affinchè colui che lo riceve sia fuori di quella dipendenza assoluta, causata dalla privazione dei mezzi di sussistenza necessari, che è quasi la dipendenza della schiavitù» gli operai non debbono tuttavia accordarsi sui loro interessi, non debbono agire in comune moderando cosi quella loro « assoluta dipendenza che e quasi schiavitù », perchè con ciò essi ledono appunto « la libertà dei loro c i - d e v a n t  m a î t r e s, degli attuali imprenditori » (la libertà di mantenere gli operai in schiavitù!), e perché una coalizione contro il dispotismo degli antichi padroni delle corporazioni — indovinate — e un ristabilimento delle corporazioni abolite dalla costituzione francese![226].

4. GENESI DEI FITTAVOLI CAPITALISTI.
Dopo aver esaminato la creazione di proletari eslege a mezzo della violenza, la disciplina sanguinaria che trasforma i proletari eslege in operai salariati, la sudicia azione di alta politica che aumenta con operazioni di polizia il grado di sfruttamento del lavoro e con esso l’accumulazione del capitale, ci si pone la domanda: di dove vengono originariamente i capitalisti? Poiché l’espropriazione della popolazione rurale crea in via immediata soltanto dei grandi proprietari fondiari. Per quanto riguarda la genesi del fittavolo, possiamo per così dire toccarla con mano, perchè è un processo lento che si svolge attraverso molti secoli. Anche i servi della gleba, accanto ai quali erano anche molti piccoli proprietari liberi, si trovavano in rapporti di possesso molto differenti e quindi vennero emancipati in condizioni economiche differentissime.

In Inghilterra la prima forma dell’affittuario è quella del bailiff anche esso servo della gleba. La sua posizione è simile a quella del villicus nella Roma antica, solo che ha una sfera di azione più ristretta. Durante la seconda metà del secolo XIV il bailiff viene sostituito da un fittavolo, fornito dal landlord di sementi, bestiame e attrezzi agricoli. La sua posizione non è molto diversa da quella del contadino. La sola differenza è che egli sfrutta una maggiore quantità di lavoro salariato. Presto diventa métayer, mezzadro. Egli fornisce una parte del capitale agricolo, il landlord ne fornisce l’altra, ed entrambi si spartiscono il prodotto complessivo in una proporzione fissata per contratto. In Inghilterra questa forma scompare rapidamente per far posto al vero e proprio fittavolo, che valorizza il proprio capitale adoperando operai salariati e paga al landlord una parte del plusprodotto in denaro o in natura quale rendita fondiaria.

Finché, per tutto il secolo XV, il contadino indipendente e li servo agricolo che oltre a prestare il servizio salariato coltiva anche per proprio conto arricchiscono se stessi col proprio lavoro, la situazione del fittavolo e il suo campo di produzione rimangono egualmente mediocri. La rivoluzione agricola dell’ultimo terzo del secolo XV, che dura per quasi tutto il secolo XVI (con eccezione però degli ultimi decenni), arricchisce il fittavolo con la stessa rapidità con la quale impoverisce la popolazione rurale[227]. L’usurpazione dei pascoli comunali ecc, gli permette di ottenere un grande aumento del proprio bestiame quasi senza spese, mentre il bestiame gli fornisce più abbondante concime per la lavorazione della terra.

Nel secolo XVI si aggiunge .un elemento d’importanza decisiva. Allora i contratti d’affitto erano a lunga scadenza, spesso avevano la durata di 99 anni. La continua caduta del valore dei metalli nobili e quindi del denaro portò frutti d’oro ai fittavoli. Anche se prescindiamo da tutte le altre circostanze sopra discusse, la caduta del valore del denaro abbassò il salario lavorativo. Un frammento di questo venne ad aggiungersi al profitto del fittavolo. Il continuo aumento dei prezzi del grano, della lana, della carne, in breve di tutti i prodotti agricoli, fece ingrossare il capitale in denaro del fittavolo senza alcun contributo da parte sua, mentre la rendita fondiaria, ch’egli doveva pagare, era stata contrattata sulla base del vecchio valore dei denaro[228].

Così il fittavolo s’arricchì contemporaneamente a spese dei suoi operai e a spese del suo landlord. Nessuna meraviglia dunque che l’Inghilterra alla fine del secolo XVI possedesse una classe di «fittavoli capitalisti » che per quei tempi erano ricchi[229].
5. RIPERCUSSIONE DELLA RIVOLUZIONE AGRICOLA SULL’INDUSTRIA. C’REAZIONE DEL MERCATO INTERNO PER IL CAPITALE INDUSTRIALE.
L’espropriazione e la cacciata delta popolazione rurale, che procedeva a scatti continuamente ripetendosi, tornava sempre di nuovo, come si è visto, a fornire all’industria delle città masse di proletari che erano completamente al di fuori dei rapporti di corporazione, fausta circostanza che fa credere al vecchio A. Anderson (da non scambiare con James Anderson), nella sua storia del commercio, a un intervento diretto della Provvidenza. Dobbiamo fermarci ancora un po’ su questo elemento dell’accumulazione originaria. Alla rarefazione della popolazione rurale indipendente che coltivava per conto proprio non corrispondeva soltanto il condensamento del proletariato industriale, come, secondo il Geoffroy Saint-Hilaire, il condensamento della materia cosmica in un punto si spiega con la sua rarefazione in un altro[230]. Nonostante la diminuzione del numero dei suoi coltivatori il suolo continuò a dare altrettanto prodotto o anche più di prima, perchè la rivoluzione dei rapporti della proprietà fondiaria era accompagnata da un perfezionamento dei metodi di coltura, da maggiore cooperazione, da maggiore concentrazione dei mezzi di produzione, ecc., e perchè gli operai rurali non solo venivano costretti a un lavoro più intenso[231], ma anche perchè il campo di produzione nel quale lavoravano per se stessi andava contraendosi sempre più. Dunque, mentre una parte della popolazione rurale è resa disponibile, vengono resi disponibili anche i suoi antichi mezzi di sostentamento, i quali si trasformano ora in elemento materiale del capitale variabile. Il contadino estromesso deve comprarsi il valore dei mezzi di sostentamento in forma di salario lavorativo dal suo nuovo padrone, il capitalista industriale. E non diversamente stavano le cose per la materia prima agricola indigena dell’industria, che si trasformò in un elemento del capitale costante.

Supponiamo per esempio di avere una parte dei contadini della Vestfalia, che al tempo di Federico II filavano tutti, se non la seta, il lino, espropriata con la forza e cacciata dalla terra, mentre la parte rimasta è trasformata invece in giornalieri di grossi fittavoli. Contemporaneamente s’innalzano grandi filande e tessiture di lino, dove ora lavorano per un salario coloro che erano stati « resi disponibili »

Il lino ha sempre l’aspetto di prima. Non ne è cambiata nessuna fibra, ma gli è entrata in corpo una nuova anima sociale. Ora esso costituisce una parte del capitale costante del padrone della manifattura. Prima era distribuito fra una massa enorme di piccoli produttori, che lo coltivavano essi stessi e lo filavano a piccole proporzioni assieme alle loro famiglie; ma ora è concentrato in mano d’un capitalista che fa filare e tessere altri per conto suo. Il lavoro straordinario speso nella filatura del lino si realizzava prima in un’entrata straordinaria di innumerevoli famiglie contadine, o anche, al tempo di Federico Il, in imposte pour le roi de Prusse. Ora invece si realizza nel profitto di pochi capitalisti. I fusi e i telai, prima distribuiti su tutta la superficie della campagna, ora sono riuniti in poche grandi caserme da lavoro, e così gli operai, così la materia prima. E fusi e telai e materia prima sono da questo momento trasformati, da mezzi di un’esistenza indipendente per i filatori e i tessitori, in mezzi per comandarli[232]  e per succhiar loro lavoro non retribuito. A guardare le grandi manifatture o le grandi tenute in affitto non si vede che sono composte di molti piccoli luoghi di produzione e formate mediante l’espropriazione di molti piccoli produttori indipendenti. Tuttavia lo sguardo spregiudicato non si lascia ingannare. Al tempo del Mirabeau, il leone della rivoluzione, le grandi manifatture si chiamavano ancora manufactures réunies, laboratori congiunti, come noi parliamo di campi congiunti. «Si vedono soltanto», dice il Mirabeau, «le grandi manifatture, dove centinaia di uomini lavorano sotto un direttore e che si chiamano abitualmente manifatture riunite (manufactures réunies). Invece quelle dove un grandissimo numero di operai lavorano ciascuno separatamente e ciascuno per proprio conto, vengono appena appena degnate d’uno sguardo. Vengono respinte in fondo in fondo. Ed è un grandissimo errore, perchè esse soltanto costituiscono una parte veramente importante della ricchezza nazionale... La fabbrica riunita (fabrique réunie) arricchisce prodigiosamente uno o due imprenditori, ma gli operai non saranno che giornalieri p

Offline TOTORE-RASTAMAN

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #90 il: 25 Settembre, 2015, 11:39:26 am »
Spoiler
La fabbrica riunita (fabrique réunie) arricchisce prodigiosamente uno o due imprenditori, ma gli operai non saranno che giornalieri pagati più o meno bene, e non parteciperanno per nulla al benessere dell’imprenditore. Nella fabbrica separata (fabrique séparée) invece nessuno diventerà ricco, ma molti operai saranno agiati... Il numero degli operai industriosi ed economi aumenterà, perchè vedranno nella buona condotta, nell’attività, un mezzo per migliorare sostanzialmente le loro condizioni, e non per ottenere un piccolo rialzo del salario che non può mai essere un elemento importante per l’avvenire e che tutt’al più mette gli uomini in grado di vivere un po’ meglio giorno per giorno... Le manifatture separate individuali, per lo più collegate con la piccola agricoltura, sono le sole libere»[233] L’espropriazione e la cacciata d’una parte della popolazione rurale non solo mette a libera disposizione del capitale industriale, assieme agli operai, i loro mezzi di sussistenza e la loro materia da lavoro, ma crea anche il mercato interno.

Di fatto gli eventi che hanno trasformato i piccoli contadini in operai salariati e i loro mezzi di sussistenza e di lavoro in elementi materiali del capitale, creano contemporaneamente a quest’ultimo il suo mercato interno. Prima, la famiglia contadina produceva e lavorava i mezzi di sussistenza e le materie prime che poi consumava per la massima parte essa stessa. Ora, queste materie prime e questi mezzi di sussistenza sono diventati merci: le vende il grosso fittavolo che trova il suo mercato nelle manifatture. Refe, tela, lanerie rozze, cose le cui materie prime si trovavano nell’ambito di ogni famiglia contadina, che le filava e tesseva per proprio uso, ora si trasformano in articoli di manifattura, lo sbocco dei quali è costituito proprio dai distretti rurali. La numerosa e dispersa clientela che fino allora si basava su una massa di piccoli produttori che lavoravano per proprio conto, si concentra ora in un grande mercato, rifornito dal capitale industriale[234]. Così l’espropriazione dei contadini che prima coltivavano in proprio e il loro distacco dai propri mezzi di produzione procedono di pari passo con la distruzione dell’industria sussidiaria rurale, con il processo di separazione di manifattura e agricoltura. E solo la distruzione dell’industria domestica rurale può dare al mercato interno di un paese l’estensione e la salda consistenza delle quali abbisogna il modo di produzione capitalistico.

Tuttavia il periodo della manifattura in senso proprio non conduce a una trasformazione radicale. Ci si ricorderà che la manifattura s’impadronisce della produzione nazionale solo in maniera molto frammentaria e che poggia sempre sull’artigianato urbano e sull’industria sussidiaria domestica rurale che ne costituiscono l’ampio sfondo. Se la manifattura distrugge l’industria domestica rurale in una forma, in particolari branche d’attività, in certi punti, la richiama poi in vita in altri punti, in altre branche e forme, perchè ne ha bisogno fino a un certo grado per la lavorazione della materia prima. Essa produce quindi una nuova classe di piccoli operai rurali che esercitano la coltivazione della terra come attività sussidiaria e come attività principale hanno il lavoro industriale per la vendita del prodotto alla manifattura: direttamente oppure attraverso la via indiretta del commerciante. Questa è una delle ragioni, seppure non la principale, di un fenomeno che in un primo momento disorienta lo studioso della storia inglese. A partire dall’ultimo terzo del secolo XV lo studioso trova lamentele perpetue, che si interrompono solo per certi intervalli, sull’aumento dell’economia capitalistica nelle campagne e sulla distruzione progressiva dei contadini. D’altra parte egli li ritrova sempre di nuovo questi contadini, seppure diminuiti di numero e in forma sempre peggiorata[235]. La ragione principale di questo fatto è: l’Inghilterra è prevalentemente ora coltivatrice di grano ora allevatrice di bestiame, a periodi alterni, e insieme ad essi oscilla il volume dell’economia contadina. Solo la grande industria offre, con le macchine, il fondamento costante dell’agricoltura capitalistica, espropria radicalmente l’enorme maggioranza della popolazione rurale e porta a compimento il distacco fra agricoltura e industria domestica rurale strappando le radici di quest’ultima... la filatura e la tessitura[236]. Quindi solo essa conquista al capitale industriale tutto il mercato interno[237].

6. GENESI DEL CAPITALISTA INDUSTRIALE.
La genesi del capitalista industriale[238]  non è avvenuta nella stessa maniera graduale di quella del fittavolo. Senza dubbio molti piccoli mastri artigiani e un numero anche maggiore di piccoli artigiani indipendenti o anche operai salariati si sono trasformati in piccoli capitalisti, e poi, mediante uno sfruttamento a poco a poco sempre più esteso del lavoro salariato e la corrispondente accumulazione, in capitalisti sans phrase. Nell’epoca dell’infanzia della produzione capitalistica le cose sono spesso andate come nel periodo dell’infanzia del sistema delle città medievali, quando il problema chi fra i servi della gleba fuggiti in città doveva essere padrone e chi servo, veniva risolto in gran parte mediante la data più antica o più recente della loro fuga. Ma il passo di lumaca di questo metodo non corrispondeva in nessun modo ai bisogni commerciali del nuovo mercato mondiale, creato dalle grandi scoperte della fine del secolo XV. Il Medioevo però aveva tramandato due forme di capitale, che maturano nelle più svariate formazioni sociali economiche e che prima dell’era del modo di produzione capitalistico sono considerate come capitale quand même — il capitale usurario e il capitale commerciale. « Oggi tutta la ricchezza della società va per prima cosa in possesso del capitalista... è lui che paga il fitto al proprietario fondiario, il salario all’operaio, al collettore delle imposte e delle decime quel che loro è dovuto; e serba per sè la parte maggiore, che cresce di giorno in giorno, del prodotto annuo del lavoro. Ora il capitalista può essere considerato come proprietario di prima mano di tutta la ricchezza sociale, benché nessuna legge gli abbia trasferito il diritto su questa proprietà... Questo cambiamento riguardo alla proprietà è stato effettuato mediante il prendere interesse sul capitale... e non è poco strano che i legislatori di tutt’Europa volessero impedire questo mediante leggi contro l’usura... il potere del capitalista su tutta la ricchezza del paese è una rivoluzione completa del diritto di proprietà, e per mezzo di quale legge o di quale serie di leggi è stata attuata questa rivoluzione?»[239] . L’autore avrebbe dovuto dirsi che le rivoluzioni non si fanno con le leggi.

Il capitale denaro formatosi mediante l’usura e il commercio veniva intralciato nella sua trasformazione in capitale industriale[240], nelle campagne dalla costituzione feudale, nelle città dalla costituzione corporativa. Questi limiti caddero con il discioglimento dei seguiti feudali, con l’espropriazione e parziale espulsione della popolazione rurale. La nuova manifattura venne impiantata nei porti marittimi d’esportazione o in punti della terraferma che erano al di fuori del controllo dell’antico sistema cittadino e della sua costituzione corporativa. Quindi in Inghilterra si ebbe una lotta accanita delle corporate towns contro questi nuovi vivai industriali.

La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica.

Un uomo che si è fatto una specialità del cristianesimo, W Howitt, così parla del sistema coloniale cristiano: «Gli atti di barbarie e le infami atrocità delle razze cosiddette cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a soggiogare, non trovano parallelo in nessun’altra epoca della storia della terra, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e incolta, spietata e spudorata»[241]. La storia dell’amministrazione coloniale olandese e l’Olanda è stata la nazione capitalistica modello del secolo XVII — «mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassini e infamie»[242]. Più caratteristico di tutto è il suo sistema del furto di uomini a Celebes per ottenere schiavi per Giava. I ladri di uomini venivano addestrati a questo scopo. Il ladro, l’interprete e il venditore erano gli agenti principali di questo traffico, e principi indigeni erano i venditori principali. La gioventù rubata veniva nascosta nelle prigioni segrete di Celebes finchè era matura ad essere spedita sulle navi negriere. Una relazione ufficiale dice: « Questa sola città di Makassar per esempio è piena di prigioni segrete, una più orrenda dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tirannide, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie». Per impadronirsi di Malacca gli olandesi corruppero il governatore portoghese, che nel 1641 li lasciò entrare nella Città; ed essi corsero subito da lui e l’assassinarono per «astenersi» dal pagamento della somma di 21.875 sterline, prezzo del tradimento. Dove gli olandesi mettevano piede, seguivano la devastazione e lo spopolamento. Banjuwangi, provincia di Giava, contava nel 1750 più di ottantamila abitanti, nel 1811 ne aveva ormai soltanto ottomila. Ecco il doux commerce!

La Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva ottenuto, come si sa, oltre al dominio politico nelle Indie Orientali, il monopolio esclusivo del commercio del tè, del commercio con la Cina in genere e del trasporto delle merci dall’Europa e per l’Europa. Ma la navigazione costiera dell’India e fra le isole, come pure il commercio all’interno dell’India, erano divenuti monopolio degli alti funzionari della Compagnia. I monopoli del sale, dell’oppio, del betel e di altre merci erano miniere inesauribili di ricchezza. I funzionari stessi fissavano i prezzi e scorticavano a piacere l’infelice indù. Il governatore generale prendeva parte a questo commercio privato. I suoi favoriti ottenevano contratti a condizioni per le quali, più bravi degli alchimisti, essi potevano fare l’oro dal nulla. Grossi patrimoni spuntavano in un sol giorno come i funghi; l’accumulazione originaria si attuava senza l’anticipo neppure di uno scellino. Il processo di Warren Hastings pullula di tali esempi. Ecco un caso. A un certo Sullivan viene accordato un contratto di. fornitura d’oppio al momento della sua partenza — per incarico pubblico — per una parte dell’India lontanissima dai distretti dell’oppio. Sullivan vende il suo contratto a un certo Binn per quarantamila sterline; Binn lo rivende lo stesso giorno per sessantamila e l’ultimo compratore, che poi eseguì il contratto, dichiara di averne tratto ancora un guadagno enorme. Secondo una lista presentata al parlamento, la compagnia e i suoi funzionari si erano fatti regalare dagli indiani fra il 1757 e il 1766 sei milioni di sterline! Fra il 1769 e il 1770 gli inglesi fabbricarono una carestia acquistando tutto il riso e rifiutando di rivenderlo fuorché a prezzi favolosi[243].

Il trattamento degli indigeni era naturalmente più rabbioso che altrove nelle piantagioni destinate soltanto al commercio di esportazione, come nelle Indie Occidentali, e nei paesi ricchi a densa popolazione, abbandonati alla rapina e all’assassinio, come il Messico e le Indie Orientali. Tuttavia neppure nelle colonie vere e proprie il carattere cristiano dell’accumulazione originaria si smentiva. Quei sobri virtuosi del protestantesimo che sono i puritani della Nuova Inghilterra misero nel 1703, con risoluzioni della loro assembly, un premio di quaranta sterline su ogni scalpo d’indiano e per ogni pellirossa prigioniero; nel 1720 misero un premio di cento sterline per ogni scalpo, nel 1744, dopo che Massachusetts-Bay ebbe dichiarata ribelle una certa tribù, i premi seguenti: per uno scalpo di maschio dai dodici anni in su, cento sterline di valuta nuova, per prigionieri maschi centocinque sterline, per donne e bambini prigionieri cinquantacinque sterline, per scalpi di donne e bambini cinquanta sterline! Alcuni decenni dopo, il sistema coloniale si prese la sua vendetta contro i discendenti dei pii pilgrim fathers che nel frattempo erano diventati sediziosi. Per istigazione inglese e al soldo inglese essi furono tomahawked (uccisi a colpi di scure di guerra dei pellirossa). Il parlamento britannico dichiarò che i cani feroci e lo scalpi erano «mezzi che Dio e la natura avevano posto in sua mano».

Il sistema coloniale fece maturare come in una serra il commercio e la navigazione. Le società monopolia (Lutero) furono leve potenti della concentrazione del capitale. La colonia assicurava alle manifatture che sbocciavano il mercato di sbocco di un’accumulazione potenziata dal monopolio del mercato. Il tesoro catturato fuori d’Europa direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio rifluiva nella madre patria e qui si trasformava in capitale. L’Olanda, che è stata la prima a sviluppare in pieno il sistema coloniale, era già nel 1684 all’apogeo della sua grandezza commerciale. Era «in possesso quasi esclusivo del commercio delle Indie Orientali e del traffico fra il sud-ovest e il nord-est europeo. Le sue imprese di pesca, la sua marina, le sue manifatture superavano quelle di ogni altro paese. I capitali della repubblica erano forse più importanti di quelli del resto d’Europa nel loro insieme». Il Gillich dimentica di aggiungere che la massa popolare olandese era già nel 1648 più logorata dal lavoro, più impoverita e più brutalmente oppressa di quella del resto d’Europa nel suo insieme.

Oggigiorno la supremazia industriale porta con sè la supremazia commerciale. Invece nel periodo della manifattura in senso proprio è la supremazia commerciale a dare il predominio industriale. Da ciò la funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale. Esso fu «il dio straniero» che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità.

Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico243a. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poichè la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.

Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perchè questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. Gli scritti di quell’epoca, per esempio quelli del Bolingbroke, dimostrano che effetto facesse sui contemporanei l’improvviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori, agenti di cambio e lupi di Borsa243b.

Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra. Già all’inizio del secolo XVIII le manifatture olandesi sono superate di molto, e l’Olanda ha cessato di essere la nazione industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più importanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi capitali, che vanno in particolare alla sua forte concorrente, l’Inghilterra. Qualcosa di simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati Uniti: parecchi capitali che oggi si presentano negli Stati Uniti senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato in Inghilterra.

Poichè il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d’interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia in seguito un aumento delle imposte. D’altra parte, l’aumento delle imposte causato dall’accumularsi di debiti contratti l’uno dopo l’altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio. Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l’ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per render l’operaio sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui l’influsso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione del l’operaio salariato, qui ci interessa meno dell’espropriazione violenta del contadino, dell’artigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe media, che il sistema stesso porta con sè. Su ciò non c’è discussione, neppure fra gli economisti borghesi. E la efficacia espropriatrice del sistema è ancor rafforzata dal sistema protezionistico che è una delle parti integranti di esso.

La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale ad esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nell’espropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni.

Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli Stati europei si sono contesi la patente di quest’invenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di plusvalore, non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo, indirettamente con i dazi protettivi, direttamente con premi sull’esportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con la forza ogni industria; come per esempio la manifattura laniera irlandese è stata estirpata dall’Inghilterra. Sul continente europeo il processo è stato molto semplificato, sull’esempio del Colbert. Quivi il capitale originario dell’industriale sgorga in parte direttamente dal tesoro dello Stato. «Perchè», esclama il Mirabeau, « andar a cercar così lontano la causa dello splendore manifatturiero della Sassonia prima della guerra dei Sette anni? Centottanta milioni di debito pubblico!»[244].
Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerre commerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura in senso proprio crescono come giganti nel periodo d’infanzia della grande industria. La nascita di quest’ultima viene celebrata con la grande strage erodiana degli innocenti. Le fabbriche reclutano il proprio personale, come la regia marina, attraverso l’arruolamento forzoso. Se Sir F. M. Eden parla con annoiato scetticismo degli orrori dell’espropriazione della popolazione rurale e della sua espulsione dalla terra a partire dall’ultimo terzo del secolo XV fino al tempo suo, che è la fine del secolo XVIII, e si congratula tutto compiaciuto di questo processo; secondo lui «necessario» per «stabilire» l’agricoltura capitalistica e «la vera proporzione fra terra arabile e pascoli», egli non dà prova però della stessa comprensione economica per la necessità del furto dei ragazzi e della loro schiavitù per la trasformazione della conduzione manifatturiera in conduzione di fabbrica e per stabilire la vera proporzione fra capitale e forza- lavoro. Egli dice: «Può esser degno dell’attenzione del pubblico considerare se una manifattura, che per essere gestita con successo deve saccheggiare cottages e workhouses in cerca di bambini poveri per farli sgobbare, a turni, la maggior parte della notte e derubarli del riposo...; una manifattura che inoltre mescola insieme, stipati, gruppi di entrambi i sessi, di differenti età e di differenti inclinazioni, cosicchè il contagio dell’esempio non può fare a meno di condurre alla depravazione e alla scostumatezza, — se tale manifattura possa aumentare la somma della felicità nazionale e individuale?»[245].
«Nel Derbyshire, nel Nottinghamshire e particolarmente nel Lancashire», dice il Fielden, «le macchine di recente inventate venivano adoperate in grandi fabbriche, costruite vicinissimo a corsi d’acqua capaci di far girare la ruota. In questi luoghi, lontani dalle città, si chiedevano all’improvviso migliaia di braccia; e specialmente il Lancashire, che fino a quel momento era relativamente poco popolato e sterile, ebbe bisogno ora anzitutto di popolazione. E si ricercavano soprattutto le dita piccole e agili. Subito sorse l’abitudine di procurarsi apprendisti (!) dalle diverse workhouses delle parrocchie, da Londra, Birmingham e altrove. Molte e molte migliaia di queste creaturine derelitte, dai sette ai tredici o quattordici anni, vennero così spedite al nord. Era costume che il padrone (cioè il ladro di ragazzi) vestisse e nutrisse i suoi apprendisti e li alloggiasse in una casa degli apprendisti vicino alla fabbrica. Venivano nominati dei guardiani per sorvegliare il loro lavoro. Era interesse di questi aguzzini di far sgobbare i ragazzi fino all’estremo, perchè la loro paga era in proporzione della quantità di prodotto che si poteva estorcere al ragazzo. La conseguenza di ciò fu naturalmente la crudeltà... In molti distretti industriali, specialmente del Lancashire, queste creature innocenti e prive d’amici, consegnate al padrone della fabbrica, venivano sottoposte alle torture più strazianti. Venivano affaticati a morte con gli eccessi di lavoro.., venivano frustati, incatenati e torturati coi più squisiti raffinamenti di crudeltà; in molti casi venivano affamati fino a ridurli pelle e ossa, mentre la frusta li manteneva al lavoro... E in alcuni casi venivano perfino spinti al suicidio!... Le belle e romantiche vallate del Derbyshire, del Nottinghamshire e del Lancashire, lontane dall’occhio del pubblico, divennero raccapriccianti deserti di tortura... e spesso di assassinio!... I profitti dei fabbricanti erano enormi. Ma questo non faceva che acuire la loro fame da lupi mannari, ed essi dettero inizio alla prassi del «lavoro notturno», cioè dopo aver paralizzato col lavoro diurno un gruppo di braccia, ne tenevano pronto un altro gruppo per il lavoro notturno; il gruppo diurno entrava nei letti che il gruppo notturno aveva appena lasciato, e viceversa. È tradizione popolare nel Lancashire che i letti non si raffreddavano mai»[246].

Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo della manifattura la pubblica opinione europea aveva perduto l’ultimo resto di pudore e di coscienza morale. Le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale. Si leggano per esempio gli ingenui annali commerciali del galantuomo A. Anderson. Vi si strombetta come un trionfo della saggezza politica inglese il fatto che l’Inghilterra estorcesse alla Spagna, nella pace di Utrecht, col trattato d’asiento (gli spagnoli chiamavano asiento i permessi per il traffico con le colonie, altrimenti monopolio della madre patria.)  il privilegio di esercitare da quel momento la tratta dei negri, che fino allora gli inglesi avevano esercitato soltanto fra l’Africa e le Indie Occidentali inglesi, anche fra l’Africa e l’America spagnola. L’Inghilterra ottenne il diritto di provvedere l’America spagnola di 4.800 negri all’anno, fino al 1743. In tal modo veniva anche coperto ufficialmente il contrabbando inglese. Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schiavi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria. E fino ad oggi gli «onorabili» di Liverpool sono rimasti i Pindaro della tratta degli schiavi, la quale — si confronti lo scritto citato del dott. Aikin del 1795 — «acuisce lo spirito d’iniziativa commerciale fino alla passione, forma marinai magnifici e rende enormi somme di denaro». Nel 1730 Liverpool impiegava per la tratta degli schiavi 15 navi; nel 1751, 53; nel 1760, 74; nel 1770, 96; nel 1792, 132.

L’industria cotoniera, introducendo in Inghilterra la schiavitù dei bambini, dette allo stesso tempo l’impulso alla trasformazione dell’economia schiavistica negli Stati Uniti, prima più o meno patriarcale, in un sistema di sfruttamento commerciale. In genere, la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase nel nuovo mondo[247] .

Tantae molis erat il parto delle «eterne leggi di natura» del modo di produzione capitalistico, il portare a termine il processo di separazione fra lavoratori e condizioni di lavoro, il trasformare a un polo i mezzi sociali di produzione e di sussistenza in capitale, e il trasformare al polo opposto la massa popolare in operai salariati, in liberi «poveri che lavorano», questa opera d’arte della storia moderna[248]. Se il denaro, come dice l’Augier, «viene al mondo con una voglia di sangue in faccia»[249], il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro[250].

7. TENDENZA STORICA DELL’ACCUMULAZIONE CAPITALISTICA.
A che: cosa si riduce l’accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica? In quanto non è trasformazione immediata di schiavi e di servi della gleba in operai salariati, cioè semplice cambiamento di forma, l’accumulazione originaria del capitale significa soltanto l’espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale.

La proprietà privata, come antitesi della proprietà sociale, collettiva, esiste soltanto là dove i mezzi di lavoro e le condizioni esterne del lavoro appartengono a privati. Ma, a seconda che questi privati sono i lavoratori o i non lavoratori, anche la proprietà privata assume carattere differente. Le infinite sfumature che la proprietà privata presenta a prima vista sono soltanto un riflesso degli stati intermedi che stanno fra questi due estremi.

La proprietà privata del lavoratore sui suoi mezzi di produzione è il fondamento della piccola azienda; la piccola azienda è condizione necessaria dello sviluppo della produzione sociale e della libera individualità dell’operaio stesso. Certo, questo modo di produzione esiste anche nella schiavitù, nella servitù della gleba e in altri rapporti di dipendenza, ma esso fiorisce, fa scattare tutta la sua energia, conquista la sua forma classica e adeguata soltanto là dove il lavoratore è libero proprietario privato delle proprie condizioni di lavoro ch’egli stesso maneggia: quando il contadino è libero proprietario del campo che coltiva e così l’artigiano dello strumento che maneggia da virtuoso.

Questo modo di produzione presuppone uno sminuzzamento del suolo e degli altri mezzi di produzione; ed esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione, anche la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno degli stessi processi di produzione, la dominazione e la disciplina della natura da parte della società, il libero sviluppo delle forze produttive sociali. Esso è compatibile solo con dei limiti ristretti, spontanei e naturali, della produzione e della società. Volerlo perpetuare significherebbe, come dice bene il Pecqueur, «decretare la mediocrità generale». Quando è salito a un certo grado, questo modo di produzione genera i mezzi materiali della propria distruzione. A partire da questo momento, in seno alla società si muovono forze e passioni che si sentono incatenate da quel modo di produzione: esso deve essere distrutto, e viene distrutto. La sua distruzione, che è la trasformazione dei mezzi di produzione individuali e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati, e quindi la trasformazione della proprietà minuscola di molti nella proprietà colossale di pochi, quindi l’espropriazione della gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro; questa terribile e difficile espropriazione della massa della popolazione costituisce la preistoria del capitale. Essa comprende tutt’una serie di metodi violenti, dei quali noi abbiamo passato in rassegna solo quelli che fanno epoca come metodi dell’accumulazione originaria del capitale. L’espropriazione dei produttori immediati viene compiuta con il vandalismo più spietato e sotto la spinta delle passioni più infami, più sordide e meschinamente odiose. La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire sulla unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero[251] .

Appena questo processo di trasformazione ha decomposto a sufficienza l’antica società in profondità e in estensione, appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma la ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente, cioè in mezzi di produzione collettivi, e quindi assume una forma nuova anche l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati. Ora, quello che deve essere espropriato non è più iL lavoratore indipendente che lavora per sè, ma il capitalista che sfrutta molti operai.

Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.

Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale.

Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso.

La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale. Là si trattava dell’espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo[252].

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #91 il: 25 Settembre, 2015, 11:42:57 am »
cominciamo a stabilire che tutti gli Agnelli hanno cominciato col lavorare in fabbrica in mezzo agli altri operai per capire come funzionavano le cose ... dopo di che non c'è solo il lavoro manuale ma c'è anche quello intellettuale che ha lo stesso valore ... tra l'altro non mi sembra che tu vada a spaccare pietre nelle miniere
ma il comunismo non ha mai propugnato che il bracciante debba guadagnare lo stesso stipendio dell'intellettuale.
Come pure la proprietà privata da abolire sarebbe quella dei fattori della produzione, non certo degli oggetti personali o della casa.
Poi, se non lo sai, in tutta Italia c'è chi pagherebbe per andare a fare l'operaio messo a posto alla fiat e non credo proprio che gli agnellini non potevano andare a pisciare più di due volte a turno sennò venivano licenziati....

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #92 il: 25 Settembre, 2015, 11:43:10 am »
Totò, na cosarella più spicciativa e a parole tue no?  :look:
“La prima volta che ti ho vista sai, di un calcio di altri tempi mi innamorai, son qui in curva a cantare perchè da quel momento ci sei soltanto te...chiudo gli occhi e penso che passa il tempo passa insieme a te quando un giorno morire dovro' voglio portare in cielo i miei color…!” by ULTRAS L'AQUILA

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #93 il: 25 Settembre, 2015, 11:44:46 am »
Totò, na cosarella più spicciativa e a parole tue no?  :look:
Io nun so nisciun.
Tu piuttosto mi spieghi come vuoi criticare il comunismo senza manco aver letto non dico il capitale ma almeno il manifesto (aiutino: un fantasma si aggira per l'Europa....)?
:asd:

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #94 il: 25 Settembre, 2015, 11:50:57 am »

Ndё she ulkun e grekun, vrahj grekun e le ulkun. (Proverbio albanese)
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #95 il: 25 Settembre, 2015, 11:51:08 am »
ma il comunismo non ha mai propugnato che il bracciante debba guadagnare lo stesso stipendio dell'intellettuale.
Come pure la proprietà privata da abolire sarebbe quella dei fattori della produzione, non certo degli oggetti personali o della casa.
Poi, se non lo sai, in tutta Italia c'è chi pagherebbe per andare a fare l'operaio messo a posto alla fiat e non credo proprio che gli agnellini non potevano andare a pisciare più di due volte a turno sennò venivano licenziati....

e ma allora di che stiamo parlando da 10 pagine.

I fattori della produzione, se intendi i ricavi che produce un'azienda, vanno reinvestiti per rimodernare le aziende, per assumere nuovo personale, per mille altre cose, mica vanno in tasca all'imprenditore.
L'imprenditore ha un suo regolare stipendio, il resto lo reinveste .... sempre se non è un incapace

PS e non credo che un operaio non possa andare a pisciare più di due volte perchè viene licenziato, non esageriamo ...

“La prima volta che ti ho vista sai, di un calcio di altri tempi mi innamorai, son qui in curva a cantare perchè da quel momento ci sei soltanto te...chiudo gli occhi e penso che passa il tempo passa insieme a te quando un giorno morire dovro' voglio portare in cielo i miei color…!” by ULTRAS L'AQUILA

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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #96 il: 25 Settembre, 2015, 11:52:38 am »
Io nun so nisciun.
Tu piuttosto mi spieghi come vuoi criticare il comunismo senza manco aver letto non dico il capitale ma almeno il manifesto (aiutino: un fantasma si aggira per l'Europa....)?
:asd:

ma infatti io non critico il comunismo, io chiedo spiegazioni che puntualmente non mi vengono fornite ... ma non su questo forum eh, dico in generale
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #97 il: 25 Settembre, 2015, 11:53:13 am »
e ma allora di che stiamo parlando da 10 pagine.

I fattori della produzione, se intendi i ricavi che produce un'azienda, vanno reinvestiti per rimodernare le aziende, per assumere nuovo personale, per mille altre cose, mica vanno in tasca all'imprenditore.
L'imprenditore ha un suo regolare stipendio, il resto lo reinveste .... sempre se non è un incapace

PS e non credo che un operaio non possa andare a pisciare più di due volte perchè viene licenziato, non esageriamo ...
chiedi agli iscritti fiom dello stabilimento di pomigliano....
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #98 il: 25 Settembre, 2015, 11:58:18 am »
ma infatti io non critico il comunismo, io chiedo spiegazioni che puntualmente non mi vengono fornite ... ma non su questo forum eh, dico in generale
fai una cosa: vai in un cantiere, contratta una giornata di lavoro a nero per 35 euro, tuffati da un ponteggio e, mentre ti abbandonano su un pizzo di strada e aspetti che passi un'ambulanza (al cui personale dovrai anche dire una palla credibile) inizia a leggerti il capitale o il manisfesto de partito comunista.
Basta lo slogan "ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo le sue necessità" per arrivare a capire che lo stipendio uguale per tutti è una puttanata che non troverai in nessun testo, congresso e/o qualsiasi atto a partire dalla prima internazionale ad oggi.
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Re:Il papa a Cuba (e alla riconquista del mondo)
« Risposta #99 il: 25 Settembre, 2015, 11:59:34 am »
Uagliu sprecarci dialettica, coi fasci, è un errore di base  :sisi: :sisi: :sisi: :sisi:
ho convertito cape molto più toste del generale, che in fondo è buonaccione e anche un po compagno....
:asd: