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Il Napoli è una provinciale.
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Il Napoli è una provinciale.
Francesco Bevacqua 13/06/2016 Contributi Commenti disabilitati su Il Napoli è una provinciale. 12,211 Visite
Dodici anni del nuovo Napoli richiedono un bilancio o, anzi, dei bilanci. Il Napoli ricostruito dal 2004 si è fatto anno per anno, con una programmazione di basso respiro. Il Napoli in Serie A si è sempre posizionato in zona europea, ha vinto tre trofei (seconda squadra titolata dopo la Juventus dal 2012) e ha seriamente lottato per lo scudetto in due occasioni. Ha anche ottenuto buone prestazioni in Champions League. E’ una società dai conti in ordine e dalle entrate importanti anche se altalenanti, e possiede una ricchezza monetaria interessante (quest’anno oltre i cento milioni, contando i futuri proventi della Champions).
Qualcuno si è chiesto, e giustamente a mio avviso, cos’è il Napoli. Una “grande”? Se per grande, beninteso, intendiamo una squadra che lotti per il massimo trofeo ogni anno. Una provinciale? Le provinciali sono squadre senza ambizioni e senza programmazione, che vivono alla giornata e che cercano di galleggiare in Serie A. Il Napoli ha dichiarato tre volte di voler lottare per lo scudetto, anche l’ultimo infelice anno di Benitez, senza però aver mai messo su una squadra che potesse realmente competervi. Da un paio di anni, la dirigenza non rilascia dichiarazioni in merito, sapendo di non poter mantenere le mirabolanti promesse fatte.
La SSC Napoli non ha proprietà, salvo un bus. Ha uno dei più scadenti vivai d’Italia, ultimo per investimenti. Ha un organigramma societario ridotto all’osso, laddove al DS spettano i compiti di direttore generale, sportivo, contrattuali, di mercato, di scouting. Il personale tecnico viene dalle primavere del Perugia, poiché con i contratti annuali che offre il Napoli nessuno vuole lasciare un posto di lavoro certo per un contratto di un solo anno. Il personale della comunicazione è composto da una manciata di persone, così come il merchandising, che non fa alcuna operazioni di lancio del marchio (branding).
Queste peculiarità allontanano il Napoli dai tre top club italiani, nonché da Roma, Lazio e Fiorentina. E per certi versi anche dall’Udinese e dall’Atalanta.
I punti deboli sono le giovanili, le proprietà e il lancio del marchio, che prevede un certosino lavoro di media e contratti. Il Napoli è in questo inferiore alle prime sei, sette squadre in classifica ed ha una struttura societaria più vicina al Genoa, alla Samp o al Torino. Le piccole sono più organizzate invero (vedasi Sassuolo e Chievo), laddove il Napoli può essere più approssimativo grazie all’enorme mole di tifosi al suo seguito.
In una società post industrializzata, l’assenza di investimenti strutturali non permette ricavi che siano importanti ma, soprattutto, programmabili. Solamente investendo in strutture e personale ci si garantisce delle entrate sicure. Il Napoli, in assenza di questi investimenti, ha adottato una forma di introito che chiameremo della “grattugia”. La società, al di là del mercato, si assicura introiti con contratti pubblicitari e tecnici, aumentando gli sponsor sulla maglia, introitando i diritti d’immagine dei calciatori, tagliando su strutture e giovanili, lucrando anche sulle amichevoli estive.
Tali introiti, anche quando sommati tra loro, rappresentano cifre molto piccole perché avvengono senza che la società investa un centesimo. Il risultato è una maglia piena di sponsor proprio come accade in Lega Pro, e che di certo non ha successo sul mercato (salvo a Napoli). Così il brutto logo non aiuta le vendite negli stores, o ancora aver preferito la Macron alla Nike qualche anno fa per un milione di differenza. Il risultato è che con Nike la maglia azzurra sarebbe arrivata a New York, mentre con Macron non ha superato Cologno Monzese. La logica dei diritti d’immagine allontana dal Golfo giocatori di livello: Higuain ne è la prova, poiché è venuto solo mantenendo i diritti d’immagine.
Ora dai contratti coi giocatori, ora dagli sponsor, il Napoli “gratta” tutte le briciole possibili – fossero anche poche migliaia di euro – per cercare di guadagnare il massimo senza profondere alcuno sforzo.
Da alcuni, tale economia – che ricorda quella spagnola del XVII secolo – è considerata un vanto, e ci dispiace che esistano nostalgici del feudalesimo. Tuttavia è un’economia degna di Mazzarò, accumulatore di piccoli beni tesaurizzati per quando ci sarà la magra. Nell’economia post industriale (XIX secolo), è l’investimento che ripara le spalle all’imprenditore, non il carusiello.
Il Napoli investe in giocatori, perlopiù, che rappresentano un investimento pericoloso: non sono macchinari che garantiscono al cento per cento i risultati, possono farsi male o la squadra potrebbe non girare. Ovviamente, un Higuain dà garanzie diverse da un Principito Sosa (el guallarito). Tuttavia, i giocatori possono dare immediati introiti economici come le qualificazioni in CL, che rappresentano l’unica entrata di peso degli azzurri. Il Napoli perciò, in assenza di introiti strutturati, vive di anno in anno, dipendendo strettamente dai risultati in classifica che, a loro volta, dipendono dal mercato. Va chiarito che, una società con strutture ben organizzate e di proprietà, oltre ad aumentare gli introiti migliora i risultati e, quindi, gli introiti. Insomma, cresce.
Il Napoli vive alla giornata, senza organizzazione né programmazione. A questo si aggiungono i mancati pagamenti al comune di Napoli e all’albergo di Castel Volturno, giustificati attraverso una serie di favori di entrambe le parti come nella migliore tradizione meridionale. La SSC Napoli attuale ha generato un sistema di improvvisazione che è tristemente combaciante alla tradizione che vorrebbe i napoletani dei disorganizzati lazzari che vivono di espedienti. I risultati buoni sono ottenuti, al netto di investimenti molto bassi, grazie all’elevato numero di tifosi che garantisce introiti e una spinta in casa senza eguali. E’ proprio questa forza che ha suggerito alla società non aumentare gli sforzi perché il Napoli da realtà locale diventi una realtà europea.
Una parte dei tifosi è molto contenta di questa gestione provinciale della società. Questo può essere ricondotto alla storia recente azzurra che, dopo i trofei maradoniani, è miseramente crollata. La paura di un ritorno a quel baratro è tale che una parte dei tifosi è pronta a festeggiare un decimo posto. Senza entrare nel merito della giustezza di queste posizioni, accontentarsi di partecipare nonostante il potenziale che la piazza dà è da provinciali. Non ci si può appellare a borbonismo, gloriosi passati, bellezze cittadine e numeri da metropoli e, poi, accontentarsi di inseguire Staccolanana del Tuttocuoio per tre mesi, o esaltarsi per aver massacrato il Kuollecatzemberg in Europa League. Delle due, l’una. O siamo una provinciale che si diverte a rompere le scatole e poi non vince niente, o siamo una società che vuole crescere e dare alla città di Napoli (la terza d’Italia, tra le più celebri d’Europa) un ruolo commisurato alla sua gente. La società è stata brava a inventarsi lo spauracchio del fallimento, indicando il debito come l’inizio di un tracollo. Nell’economia moderna il debito non è sintomo di male se si ha società florida e con entrate sicure. Dato che il Napoli non ha entrate sicure, anche un minimo debito dev’essere ripagato dal tesoretto, che serve da paracadute. E’ lo stesso principio con cui Don Peppe o ‘Nzevato gestisce un bar a Casandrino.
Sono da provinciali, ahimè, anche tutti i discorsi sul complottismo, le gare truccate, il Palazzo. E’ un discorso rassicurante per il napoletano che, sappiamo, è antiagonistico. Decidere a priori che la Juventus vince grazie ad un sistema che la protegge è un modo per non mettersi in competizione con lei e, quindi, assimilare meglio le paliate che ci rifila. Il napoletano perciò, rinuncia alla corsa. Al netto di sentenze e recenti passati sull’onestà di alcune società, la Juventus è un’armata che è arrivata a sfiorare la Champions’ un anno fa e ha fatto un’impresa leggendaria quest’anno. Questa forza non nasce dal nulla, ma è frutto di una lunga programmazione. I bianconeri, verso i quali provo un odio acerrimo, si sono rialzati dopo calciopoli e i terribili anni di Secco e Blanc, creando una squadra straordinaria, partendo da importanti investimenti. E se non vogliamo parlare dello stadio, parliamo delle oltre trenta nuove assunzioni che alcuni mesi fa la Juventus FC ha fatto all’interno dell’organigramma tecnico e di comunicazione. Il Napoli non ha gli stessi introiti? Ovvio, non fa nulla per ottenerli, e di certo non cadono dall’alto. Il rischio d’impresa è l’abc dell’economia moderna e, invero, nel calcio è relativamente basso: basta copiare quei sistemi che funzionano, in proporzione alle proprie forze. Confrontare Borussia Dortmund e Siviglia, di cui ho già scritto.
Siamo oltre le ottomila battute, e mi complimento coi sopravvissuti.
La società ha creato una squadra che cercherà di galleggiare in Europa, riproponendo stagioni tutte simili a loro stesse: una prima metà esaltante, l’illusione di raggiungere qualche risultato, poi il crollo. Alla soddisfazione di battere la Juventus in casa o di vincere la classifica cannonieri, seguirà la solita batosta di Udine, un desolante pareggio a Crotone e, temo, la vittoria del Chievo che l’anno scorso abbiamo miracolosamente scampato. Il solito film, come quello di Natale. Che purtroppo non è un capolavoro: se fosse un film da scudetto, come Apocalypse Now, io lo rivedrei in loop. Ma è “Natale al S. Paolo”, con battute squallide e abusate, cast deprimente, regia da “cento vetrine”, col finale ampiamente spoilerato.
Il Napoli doveva essere il Teatro S. Carlo ed è diventato un cinemino di provincia.
di Saša Korichnevyich