da
la Repubblica di ieri:
Le tappe
Alla società serve un percorso di reinserimento
RIDARE SENSO
ALLA PENAQuando si parla di costruzione di nuove carceri per
dare una soluzione al problema del sovraffollamento,
bisognerebbe chiedersi quanto costerà la
gestione di queste carceri e poi pensare all’efficacia
di questa spesa. Ci sono tanti modi di scontare una pena. Stare
chiusi in carcere a fare nulla perché non ci sono le risorse
per le attività , e neppure per educatori, psicologi e agenti, e
nessuna possibilità di uscire con una misura alternativa in un
percorso graduale di reinserimento, è sicuramente il peggiore.
Il peggiore per i detenuti che non riescono a dare un
senso alla loro pena, e il peggiore per la società che si vedrà
restituire persone che in carcere si sono solo incattivite.
Questo è il sovraffollamento raccontato dai detenuti, galere
piene di corpi e vuote di senso.
Andrea: «In carcere ultimamente vedo arrivare ragazzi
sempre più giovani, consumati dalla droga, che passano le
giornate stesi in branda, da dove si alzano solo per prendere
quella che in galera si chiama la “Terapiaâ€, quegli psicofarmaci
che ti permettono di anestetizzare la sofferenza e l’assenza
di speranza dormendo. Tutte le volte che incontro facce
giovani, io che in carcere ci sono finito quando avevo poco
più di vent’anni per reati legati alla tossicodipendenza, e
ora di anni ne ho trentacinque, mi si stringe il cuore a pensare
al destino che li aspetta: mentre io, per lo meno, la detenzione
l’ho vissuta non buttando il tempo, ma impegnandomi
in attività che mi hanno aiutato a crescere, penso che per
loro il carcere sovraffollato di oggi sarà solo tempo inutile».
Gentian: «Le giornate nelle galere sovraffollate passano tra
lunghe attese per andare in doccia e turni imbarazzanti per
usare il bagno. In quel viavai di gente, in mezzo a quel fiume
di angoscia, non puoi permetterti debolezze e distrazioni,
devi sopravvivere. In quelle condizioni è difficile che una persona
prenda coscienza dei propri errori ed accetti le proprie
responsabilità per il reato commesso, e un possibile reinserimento
nella società diventa quasi un miraggio».
Vanni: «Un frustrante senso di impotenza ti attanaglia
quando varchi la soglia del carcere, dove tutto sfugge al tuo
controllo. Progressivamente si dilata anche la percezione del
tempo: la giornata del detenuto è fatta con lo stampino, una
clonazione continua degli stessi identici movimenti. Ma oggi,
nelle galere sovraffollate, si logorano sempre più anche i
progetti di vita. E non vedo come i cinque educatori del carcere
in cui sono recluso possano lavorare seriamente al reinserimento
di ottocento persone, quando tutto si riduce a un
unico colloquio annuo (se va bene) di dieci minuti. Il fatto che
un’alta percentuale dei detenuti, che scontano la pena in carcere
fino all’ultimo giorno, torni poi a delinquere, dimostra,
ma nessuno sembra accorgersene, che i penitenziari non sono
luoghi ove si impara a compiere scelte più rispettose della
legge di quelle compiute in passato».
Sergej: «Quando sei costretto a lottare per la sopravvivenza,
le difficoltà quotidiane assorbono tutte le tue energie e
non ti permettono di pensare ad altro. Né al tuo passato, su
cui invece avresti bisogno di riflettere per non ritrovarti, all’uscita
dalla galera, gli stessi problemi che avevi quando ci
sei finito dentro, né al tuo futuro, perché sei interamente preso
da un presente che non ti dà tregua».
In galera di questi tempi si vive da cani, si sta stretti, capita
anche di dormire per terra, eppure farne prevalentemente
una questione di spazi, e proporre un piano carceri che preveda
solo nuove celle, ha poco senso: oggi questo carcere distrugge
nelle persone ogni progetto, ogni speranza, e un metro
in più cambierebbe poco.
ORNELLA FAVERO
Un’istituzione che non funziona più
DOVE REGNA
L’ILLEGALITà€La pena detentiva nasce, nel pensiero dei riformatori
settecenteschi, come la pena “perfettaâ€:
uguale, perché colpisce un bene comune;
giusta, perché proporzionabile all’infinito;
utile, perché in grado di impedire la recidiva mediante
il trattamento rieducativo. Ma le istituzioni penitenziarie
già sorte all’inizio dell’età moderna versavano in
condizioni spaventose: la denuncia del loro degrado e
della loro indegnità è immediata e vigorosa. Occorreva
trasformarle radicalmente. Si sviluppa così il tema
della riforma carceraria, che attraversa il XX e il XXI secolo,
con un impegno plurisecolare i cui esiti pratici somigliano
però alla carota appesa davanti al muso dell’asino.
Alla fine dell’Ottocento matura il frutto della
delusione e la consapevolezza dell’inanità : le nuove
parole d’ordine saranno la minimizzazione del ricorso
al carcere attraverso una miriade di alternative e la fuga
dalla pena detentiva mediante congegni deflattivi.
La finalità rieducativa, asse ideologico portante della
pena “utileâ€, si riduce ad una formula retorica, che
oscilla tra l’autoritarismo disciplinare, il collante istituzionale
sezionato da Foucault, e l’aspirazione indefessa
ad un ruolo vicario della detenzione: agendo contro
il delinquente, fare quello che la politica sociale ha
omesso di fare per lui. Il primo è la negazione stessa della
rieducazione, perché la disciplina in un’istituzione
totale non può mai essere funzionale alle esigenze dell’internato,
ma al contrario rende questo funzionale alle
sue. La seconda si basa sull’inganno che sia possibile
educare all’uso della libertà sopprimendola: insegnare
a correre legando le gambe.
Da sempre il carcere è inidoneo a svolgere la funzione
su cui sono state erette le sue fortune normative. Sopravvive
per ragioni che non hanno molto a che vedere
con la rieducazione, e che in Italia non la riguardano
affatto. Da noi, il degrado e la perversione riescono persino
a squarciare la cortina di invisibilità che normalmente
rende cieca la società civile e la “protegge†dallo
spettacolo della sua vergogna. Il nostro capolavoro
è di essere riusciti a rendere l’esecuzione penitenziaria
un fenomeno di illegalità , in contrasto manifesto con
le regole che pur ci siamo dati; anzi: un fenomeno criminoso,
perché il “trattamento rieducativo†si converte
in maltrattamenti. Il recupero della legalità ha un
percorso obbligato: la garanzia dei diritti della persona
detenuta. Un programma serio e severo che Arturo
Rocco (il fratello di Alfredo) aveva già tracciato nel
1910, opponendolo ai rieducatori d’antan. Se si parla
di garanzie, si parla di un giudice. Certo non dell’attuale
magistrato di sorveglianza, ridotto a inerme spettatore
dello sconcio e del degrado, ma un giudice posto
in grado di vincolare coercitivamente l’amministrazione
penitenziaria al rispetto dei diritti inviolabili della
persona detenuta, oppure – sia chiaro – di liberarla
da una condizione antigiuridica. àˆ un programma minimo
ma essenziale perché il carcere non assuma una
funzione diseducativa e criminogenetica. Non dimentichiamoci
che l’art. 27 della Costituzione, stabilendo
che “le pene†“devono tendere alla rieducazione del
condannatoâ€, non stende un pannicello sulla piaga,
ma confeziona un bisturi. Che ne facciamo di una pena,
quella carceraria, nel momento in cui finalmente
riconosciamo che svolge la funzione contraria?
TULLIO PADOVANI
© RIPRODUZIONE RISERVATA
è ufficiale, amo Tullio Padovani
