In questa vicenda storco il naso sia davanti all'atteggiamento bimbominkiesco dell'opinione pubblica americana (Paris Hilton: Il mondo è un posto migliore - espressione che sintetizza il pensiero di un'intera popolazione) che all'antiamericanismo incondizionato di chi sta ancora a menarsela con la storia della collaborazione tra CIA e la nascente Al Qaeda per fronteggiare l'URSS.
Bin Laden era un criminale e la sua eliminazione è un fatto positivo senza se e senza ma. Che fosse ormai na cap' e lignamm da anni è un fatto scontato ma lo era diventato perchè privato della possibilità di operare da una pressione statunitense che non poteva che culminare con la sua uccisione. Li abbiamo pigliati per il culo per anni perchè non riuscivano ad acchiapparlo ("la guerra è un pretesto!"), mò che ci sono riusciti nun va buon :look:
La chiamate pagliacciata ma non lo è. Il portato simbolico di questo avvenimento (esecuzione del leader di Al Qaeda, probabilmente un colpo di grazia all'organizzazione - piccoli rigurgiti a parte) è rilevante, così come lo era l'attacco alle torri gemelle (emblema della capitale dell'occidente).
Capisco la condanna della politica simil-imperialista americana ma in questo caso dall'altra parte della barricata non c'era un popolo (direttamente) attaccato ma, più che altro, un nemico del Medio Oriente stesso (oltre che, ovviamente, dell'occidente... sennò chi cazz' interveniva).
In tutto ciò, adesso mi incuriosisce capire che cazz' ha cumbinat' il Pakistan. Da una parte il governo intascava i contributi americani, dall'altra i servizi segreti nascondevano Bin Laden :look:
Posto qualche articolo che ho trovato interessante e poi torno ad occuparmi di strunzate :look:
SpoilerIl silenzio delle piazze arabe, e di quelle del mondo musulmano in generale, all´annuncio della morte di Osama Bin Laden, è un segnale rivelatore. Altri eroi, altri caduti, accendono ormai gli animi. Le società arabe, che hanno appena disarcionato o cercano di disarcionare i vecchi raìs, non commemorano lo sceicco.
Non rendono omaggio a chi predicava e praticava la violenza e aveva come obiettivo la restaurazione dell´antico califfato, destinato a governare la "comunità dei credenti". Sulle piazze arabe nelle ultime settimane è stato invocato l´esatto contrario. Sono stati esaltati i valori universali e in parte conquistati i diritti individuali. Non è stata chiesta la sottomissione a un potere integralista, basato sulla costrizione religiosa. Al Cairo, dove la recente rivolta ha allargato i confini della libertà di espressione, non ci sono state manifestazioni funebri. Né ce ne sono state a Tunisi, in preda a un´euforia democratica. E nessuno ci ha pensato a Bengasi. A Damasco ci si vuol liberare di un leader autoritario, non celebrare la scomparsa di un capo integralista, che appena poteva predicava la morte. Qualche bandiera americana è stata senz´altro bruciata e qualche lacrima è stata versata. Qualcuno ha sentito una stretta al cuore quando ha appreso la notizia. I miti, anche se appassiti, restano annidati, sopravvivono, in qualche memoria, e sollecitano i sentimenti, vecchi o profondi. E poi ci sono l´orgoglio e la convenienza. Se nei territori occupati l´Autorità palestinese ha definito la scomparsa del capo di Al Qaeda «una buona cosa per la pace nel mondo»; a Gaza, il primo ministro di Hamas, che due anni fa ha represso duramente i jihadisti di Rafah, ha condannato «l´assassinio del jihadista Osama». E sulla rete, nei siti dell´Islam radicale, non sono mancati gli omaggi al martire e le minacce di vendetta rivolte a chi l´ha ucciso. Ma un tempo avremmo visto riversarsi nelle piazze folle in preda alla collera e ardere falò di bandiere stellate. I regimi polizieschi, come quelli dell´egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali, finanziati da Washington, avrebbero stentato a reprimere le esplosioni di anti americanismo. In Egitto, dove negli anni Settanta sono stati formati i primi militanti di Al Qaeda (in particolare il medico Ayman Zawahiri, vice di Bin Laden), i Fratelli musulmani, da tempo ansiosi di distinguersi dall´Islam radicale, hanno ricordato la loro condanna «della violenza e degli assassinii» e hanno invitato gli occidentali a non associare più Islam e terrorismo. In questa fase della protesta, in cui non si sono ancora spenti gli slanci insurrezionali, i giovani difendono valori opposti a quelli di Al Qaeda. Sono nazionalisti, ma non esprimono ostilità verso altri paesi o altre religioni. Questo vale anche per la Libia, dove è in corso una guerra civile e dove prevalgono principi conservatori, ma dove il discorso è lo stesso. La scomparsa di Gheddafi significa libertà e democrazia, nel senso più grezzo e al tempo stesso più autentico. Anche nei dieci anni di espansione del jihadismo, Osama Bin Laden ha conosciuto continue disfatte. Nello stesso Afghanistan, dove aveva affondato la radici, non è riuscito a vincere l´ostilità di molti taliban, insofferenti alla presenza straniera degli arabi. Ha raccolto soprattutto odio. Sono stati in pochi a dargli ascolto. Il concetto della "umma", della comunità dei credenti, sottoposta all´autorità di un califfato, di cui Bin Laden pensava di essere il precursore, si è scontrato con il nazionalismo tribale dei pashtun, gelosi della propria identità. Sia pur segnata dal marchio dell´integralismo religioso. In Iraq Al Qaeda ha subito la sua più severa sconfitta. Il richiamo islamico all´inizio ha funzionato. Migliaia di sunniti, spesso salafisti, sono accorsi nella valle del Tigri e dell´Eufrate per combattere gli infedeli che l´avevano invasa. E l´alleanza con il disperso esercito laico di Saddam Hussein ha funzionato per alcuni mesi rendendo difficile la vita degli occupanti americani e dei loro alleati. L´effimero esperimento di Falluja, città sunnita governata dagli integralisti di Al Qaeda, è stato tuttavia disastroso. Sinistro. Al punto da provocare le prime spaccature tra gli insorti laici, in gran parte militari iracheni del dissolto esercito di Saddam, e i gruppi arabi internazionalisti che si richiamavano a Bin Laden. Questi ultimi organizzavano attentati, senza risparmiare gli abitanti, e si accanivano contro la maggioranza sciita, considerata eretica. Cosi si è arrivati a una scissione tra laici e integralisti. E poi a scontri sanguinosi tra di loro, perché i laici hanno formato milizie pagate dagli americani, pur di distinguersi dai jihadisti. Gli Stati Uniti hanno invaso l´Iraq ma non l´hanno conquistato perché il paese è rimasto ostile e il terrorismo non è stato sconfitto del tutto. Ma i gruppi arabi internazionalisti, ispirati anche se non direttamente guidati da Bin Laden, non hanno realizzato la rivoluzione. Sono rimasti terroristi senza avvenire. Al Qaeda è all´origine di due guerre, in Afghanistan e in Iraq. A promuoverle è stato Bush jr e Osama Bin Laden le ha affrontate perdendole in sostanza entrambe. Nei due paesi gli uomini che si ispiravano a lui sono stati detestati ed emarginati nei due paesi. Non hanno saputo conquistare la popolazione. Per gli iracheni sono rimasti stranieri crudeli, dediti soltanto al terrorismo. Non sono mai riusciti a essere un´alternativa politica. La gente non li ha seguiti. Può suonare azzardato affermare che yankees e jihadisti hanno perduto insieme la guerra. Ma c´è qualcosa di vero. Il giordano-palestinese Mussab al Zarqaui, capo di Al Qaeda in Mesopotamia, ha ucciso più iracheni che americani. Le sue vittime erano soprattutto appartenenti alla comunità sciita. Per i giovani gli eroi sono cambiati. Wael Ghonim, uno degli animatori dell´insurrezione egiziana, il primo a lanciare l´idea della manifestazione di piazza Tahrir, in occasione della morte di Osama Bin Laden ha scritto: «L´anno che viviamo resterà nella storia. Siamo soltanto al mese di maggio, e tante cose sono avvenute: Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e adesso OBL». Vale a dire Osama Bin Laden, elencato insieme ai raìs cacciati dal potere o sul punto di esserlo. Wael Ghonin e i suoi compagni hanno in realtà decretato la prima morte del capo di Al Qaeda ignorandolo. Girandogli le spalle. I suoi cupi richiami non colpivano più le fantasie dei giovani egiziani, tunisini, libici, siriani, yemeniti. In qualche mese loro sono riusciti a detronizzare due raìs e a metterne in pericolo almeno altri tre. Osama Bin Laden non ha sconfitto nessuno. Con i suoi atti di terrorismo, con le sue minacce, ha seminato morte e paura. E ha soprattutto alimentato l´immobilismo di società giovani e impazienti. Perché al fine di controllarlo le potenze occidentali hanno finanziato i raìs incaricati di tenere a bada lui, Osama, e i suoi uomini. Raìs corrotti, invecchiati nei loro palazzi, protetti e serviti da forze dell´ordine spesso pagate dagli Stati Uniti. Ha ragione Abdulkhaleq Abdullah, professore di scienze politiche all´Università degli Emirati, quando dice che Osama Bin Laden ha contribuito a mantenere la miseria, a provocare le disfatte e a tenere nella stagnazione le società arabe. Incutendo il terrore e quindi il sospetto impediva riforme e aperture. Nessuno si fa tuttavia illusioni sul fatto che la morte del capo, per altro da tempo soltanto simbolico, segni la fine dell´azione terroristica. La sua rivoluzione è fallita. Ma i suoi seguaci sono ancora sguinzagliati nel mondo e sono in grado di seminare la morte. Se non altro per spirito di vendetta. Per il resto, i popoli che volevano sollevare non li ascoltano più: hanno fatto o stanno facendo la rivoluzione che Osama Bin Laden sognava e predicava. Ma non glielo hanno neppure detto. È stato un insulto. Anzi un´esecuzione, ancor prima di quella finale avvenuta in Pakistan, per opera del commando americano. L´arabo Osama è stato insomma "ucciso" dagli arabi.
Bernardo Valli - La Repubblica
SpoilerNEW YORK - «L´impatto di questo evento è enorme non solo su Al Qaeda ma su tutto il mondo islamico: l´uccisione di Bin Laden si aggiunge alle rivoluzioni tunisina ed egiziana, nel segnare la fine di un´ideologia». Fareed Zakaria, il più autorevole analista geopolitico per Cnn e Time, appena rientrato dall´Egitto, in questa intervista a Repubblica traccia il primo bilancio dopo la morte dello stratega dell´11 settembre. Perché Barack Obama ce l´ha fatta a centrare il bersaglio che a George Bush era sfuggito durante i suoi due mandati? «La fortuna gioca sempre un ruolo nella storia, e naturalmente l´ha avuto anche in questo caso. Ma una spiegazione cruciale sta nel fatto che Obama ha spostato nettamente le priorità: dall´ambizioso piano di "nation-building" di Bush è passato a una strategia coerente di antiterrorismo. Con questo presidente c´è stata una enorme concentrazione di risorse sull´antiterrorismo. L´aspetto più visibile è stato il potenziamento nell´uso dei droni in Pakistan, le cui missioni sono addirittura quadruplicate. Ciò è stato possibile anche perché Obama ha costretto il Pakistan ad accettare questa escalation. E dietro l´uso dei droni c´era molto di più, tutto l´arsenale dei mezzi a disposizione dell´antiterrorismo è stato rafforzato con una focalizzazione precisa di obiettivi. Rispetto ai piani di Bush di costruzione della democrazia in Iraq e in Afghanistan, con Obama si è passati a una visione più realista, una strategia in cui l´America si dava obiettivi più limitati, al servizio dei quali mobilitare tutta la propria potenza militare e di intelligence». La Casa Bianca si affretta a smorzare i trionfalismi: attenzione, ammonisce, Al Qaeda non è finita. «L´Amministrazione Obama ha il dovere di essere prudente, sta di fatto che la scomparsa di Bin Laden è un colpo micidiale, mette a nudo la debolezza di Al Qaeda. Senza il suo leader, il suo ideologo, ciò che resta di questa organizzazione rischia di diventare come i pirati somali: fanno dei danni, certo, ma nessuno si sogna di considerarli come una minaccia strategica per la sicurezza dell´Occidente». Quali saranno gli effetti nell´insieme del mondo arabo? «Saranno devastanti per Al Qaeda, perché si sommano ai movimenti in atto dall´inizio di quest´anno. Tutto questo grande risveglio del mondo arabo è avvenuto in termini ben diversi da come avrebbe voluto Al Qaeda. L´ideologia di Bin Laden aveva due presupposti fondamentali. Primo: che i regimi dittatoriali del mondo arabo si reggono grazie al sostegno degli Stati Uniti. Secondo: che l´unico modo per rovesciarli consiste nell´usare la violenza, per poi sostituire i vecchi dittatori con dei regimi islamici. Ma dalla Tunisia all´Egitto abbiamo visto in azione dei movimenti che sono stati non violenti, e non sono diretti alla creazione di regimi islamici. Tutto questo aveva già avuto effetti tremendi su Al Qaeda. Non a caso, dall´inizio delle rivolte tunisina ed egiziana non si è avuto un documento chiaro di Al Qaeda che desse una valutazione di quegli eventi». Per Obama, invece, questo successo arriva proprio mentre stava serpeggiando un certo malumore per la sua politica in Medio Oriente. Dall´Egitto fino ai casi più recenti di Libia e Siria, il presidente cominciava ad essere criticato per un eccesso di prudenza. Dai falchi di destra agli ultra-umanitari di sinistra, molti avrebbero voluto vedere una "spallata" di Obama contro i despoti... «Invece Obama ha tratto le conclusioni più corrette da questi eventi: che sono un risveglio del mondo arabo, non un fenomeno d´ispirazione americana. Io ho appena incontrato i leader che sono stati all´origine della rivolta contro Mubarak in Egitto e mi hanno ribadito questo concetto con chiarezza: "questa è la nostra rivoluzione", mi hanno detto, "lo è stata fin dall´inizio, non cercate di appropriarvene". Gli Stati Uniti tendono a dimenticare che l´orgoglio nazionale può essere una fonte di motivazione formidabile. Obama questo lo ha capito, anche per quanto riguarda la Libia. Qualsiasi cosa accada, è molto importante che quelle rivoluzioni rimangano in tutto e per tutto in mano a quei popoli, guai se dovesse essere la Nato a "deporre" un despota come Gheddafi». Come valuta gli eventi di questi mesi, fino all´uccisione di Bin Laden, nel quadro del declino dell´egemonia secolare degli Stati Uniti? Vede un filo conduttore tra l´annuncio di vittoria di ieri, e il discorso che Obama fece il 4 giugno 2009 all´università del Cairo, lanciando una nuova èra di dialogo con l´Islam? «Per capire l´intero fenomeno del risveglio arabo in atto da alcuni mesi, bisogna fare un passo indietro e ricordare che l´America è stata l´ultima di una serie di potenze imperiali in Medio Oriente. Prima ci fu l´impero ottomano, poi i colonialismi britannico e francese, infine la concorrenza Usa-Urss all´epoca della guerra fredda quando ciascuna superpotenza proteggeva i suoi Stati-clienti. Alla fine, erano rimasti gli Stati Uniti da soli. Ma negli ultimi sei o sette anni ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che l´America non avrebbe più avuto né la capacità né la volontà di esercitare il vecchio ruolo imperiale. Già nell´ultima fase di Bush cominciò una questa presa d´atto che l´America era ormai "dilatata" oltremisura dopo due guerre. Con Obama più che mai si è capito che il gioco imperiale alimentava ogni estremismo anti-americano. Questo è stato un fattore scatenante del risveglio arabo: le opposizioni hanno compreso che finalmente i dittatori non avrebbero più trovato sostegno negli Stati Uniti».
Federico Rampini - La Repubblica
In questa vicenda storco il naso sia davanti all'atteggiamento bimbominkiesco dell'opinione pubblica americana (Paris Hilton: Il mondo è un posto migliore - espressione che sintetizza il pensiero di un'intera popolazione) che all'antiamericanismo incondizionato di chi sta ancora a menarsela con la storia della collaborazione tra CIA e la nascente Al Qaeda per fronteggiare l'URSS.
Bin Laden era un criminale e la sua eliminazione è un fatto positivo senza se e senza ma. Che fosse ormai na cap' e lignamm da anni è un fatto scontato ma lo era diventato perchè privato della possibilità di operare da una pressione statunitense che non poteva che culminare con la sua uccisione. Li abbiamo pigliati per il culo per anni perchè non riuscivano ad acchiapparlo ("la guerra è un pretesto!"), mò che ci sono riusciti nun va buon :look:
La chiamate pagliacciata ma non lo è. Il portato simbolico di questo avvenimento (esecuzione del leader di Al Qaeda, probabilmente un colpo di grazia all'organizzazione - piccoli rigurgiti a parte) è rilevante, così come lo era l'attacco alle torri gemelle (emblema della capitale dell'occidente).
Capisco la condanna della politica simil-imperialista americana ma in questo caso dall'altra parte della barricata non c'era un popolo (direttamente) attaccato ma, più che altro, un nemico del Medio Oriente stesso (oltre che, ovviamente, dell'occidente... sennò chi cazz' interveniva).
In tutto ciò, adesso mi incuriosisce capire che cazz' ha cumbinat' il Pakistan. Da una parte il governo intascava i contributi americani, dall'altra i servizi segreti nascondevano Bin Laden :look:
Posto qualche articolo che ho trovato interessante e poi torno ad occuparmi di strunzate :look:
SpoilerIl silenzio delle piazze arabe, e di quelle del mondo musulmano in generale, all´annuncio della morte di Osama Bin Laden, è un segnale rivelatore. Altri eroi, altri caduti, accendono ormai gli animi. Le società arabe, che hanno appena disarcionato o cercano di disarcionare i vecchi raìs, non commemorano lo sceicco.
Non rendono omaggio a chi predicava e praticava la violenza e aveva come obiettivo la restaurazione dell´antico califfato, destinato a governare la "comunità dei credenti". Sulle piazze arabe nelle ultime settimane è stato invocato l´esatto contrario. Sono stati esaltati i valori universali e in parte conquistati i diritti individuali. Non è stata chiesta la sottomissione a un potere integralista, basato sulla costrizione religiosa. Al Cairo, dove la recente rivolta ha allargato i confini della libertà di espressione, non ci sono state manifestazioni funebri. Né ce ne sono state a Tunisi, in preda a un´euforia democratica. E nessuno ci ha pensato a Bengasi. A Damasco ci si vuol liberare di un leader autoritario, non celebrare la scomparsa di un capo integralista, che appena poteva predicava la morte. Qualche bandiera americana è stata senz´altro bruciata e qualche lacrima è stata versata. Qualcuno ha sentito una stretta al cuore quando ha appreso la notizia. I miti, anche se appassiti, restano annidati, sopravvivono, in qualche memoria, e sollecitano i sentimenti, vecchi o profondi. E poi ci sono l´orgoglio e la convenienza. Se nei territori occupati l´Autorità palestinese ha definito la scomparsa del capo di Al Qaeda «una buona cosa per la pace nel mondo»; a Gaza, il primo ministro di Hamas, che due anni fa ha represso duramente i jihadisti di Rafah, ha condannato «l´assassinio del jihadista Osama». E sulla rete, nei siti dell´Islam radicale, non sono mancati gli omaggi al martire e le minacce di vendetta rivolte a chi l´ha ucciso. Ma un tempo avremmo visto riversarsi nelle piazze folle in preda alla collera e ardere falò di bandiere stellate. I regimi polizieschi, come quelli dell´egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali, finanziati da Washington, avrebbero stentato a reprimere le esplosioni di anti americanismo. In Egitto, dove negli anni Settanta sono stati formati i primi militanti di Al Qaeda (in particolare il medico Ayman Zawahiri, vice di Bin Laden), i Fratelli musulmani, da tempo ansiosi di distinguersi dall´Islam radicale, hanno ricordato la loro condanna «della violenza e degli assassinii» e hanno invitato gli occidentali a non associare più Islam e terrorismo. In questa fase della protesta, in cui non si sono ancora spenti gli slanci insurrezionali, i giovani difendono valori opposti a quelli di Al Qaeda. Sono nazionalisti, ma non esprimono ostilità verso altri paesi o altre religioni. Questo vale anche per la Libia, dove è in corso una guerra civile e dove prevalgono principi conservatori, ma dove il discorso è lo stesso. La scomparsa di Gheddafi significa libertà e democrazia, nel senso più grezzo e al tempo stesso più autentico. Anche nei dieci anni di espansione del jihadismo, Osama Bin Laden ha conosciuto continue disfatte. Nello stesso Afghanistan, dove aveva affondato la radici, non è riuscito a vincere l´ostilità di molti taliban, insofferenti alla presenza straniera degli arabi. Ha raccolto soprattutto odio. Sono stati in pochi a dargli ascolto. Il concetto della "umma", della comunità dei credenti, sottoposta all´autorità di un califfato, di cui Bin Laden pensava di essere il precursore, si è scontrato con il nazionalismo tribale dei pashtun, gelosi della propria identità. Sia pur segnata dal marchio dell´integralismo religioso. In Iraq Al Qaeda ha subito la sua più severa sconfitta. Il richiamo islamico all´inizio ha funzionato. Migliaia di sunniti, spesso salafisti, sono accorsi nella valle del Tigri e dell´Eufrate per combattere gli infedeli che l´avevano invasa. E l´alleanza con il disperso esercito laico di Saddam Hussein ha funzionato per alcuni mesi rendendo difficile la vita degli occupanti americani e dei loro alleati. L´effimero esperimento di Falluja, città sunnita governata dagli integralisti di Al Qaeda, è stato tuttavia disastroso. Sinistro. Al punto da provocare le prime spaccature tra gli insorti laici, in gran parte militari iracheni del dissolto esercito di Saddam, e i gruppi arabi internazionalisti che si richiamavano a Bin Laden. Questi ultimi organizzavano attentati, senza risparmiare gli abitanti, e si accanivano contro la maggioranza sciita, considerata eretica. Cosi si è arrivati a una scissione tra laici e integralisti. E poi a scontri sanguinosi tra di loro, perché i laici hanno formato milizie pagate dagli americani, pur di distinguersi dai jihadisti. Gli Stati Uniti hanno invaso l´Iraq ma non l´hanno conquistato perché il paese è rimasto ostile e il terrorismo non è stato sconfitto del tutto. Ma i gruppi arabi internazionalisti, ispirati anche se non direttamente guidati da Bin Laden, non hanno realizzato la rivoluzione. Sono rimasti terroristi senza avvenire. Al Qaeda è all´origine di due guerre, in Afghanistan e in Iraq. A promuoverle è stato Bush jr e Osama Bin Laden le ha affrontate perdendole in sostanza entrambe. Nei due paesi gli uomini che si ispiravano a lui sono stati detestati ed emarginati nei due paesi. Non hanno saputo conquistare la popolazione. Per gli iracheni sono rimasti stranieri crudeli, dediti soltanto al terrorismo. Non sono mai riusciti a essere un´alternativa politica. La gente non li ha seguiti. Può suonare azzardato affermare che yankees e jihadisti hanno perduto insieme la guerra. Ma c´è qualcosa di vero. Il giordano-palestinese Mussab al Zarqaui, capo di Al Qaeda in Mesopotamia, ha ucciso più iracheni che americani. Le sue vittime erano soprattutto appartenenti alla comunità sciita. Per i giovani gli eroi sono cambiati. Wael Ghonim, uno degli animatori dell´insurrezione egiziana, il primo a lanciare l´idea della manifestazione di piazza Tahrir, in occasione della morte di Osama Bin Laden ha scritto: «L´anno che viviamo resterà nella storia. Siamo soltanto al mese di maggio, e tante cose sono avvenute: Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e adesso OBL». Vale a dire Osama Bin Laden, elencato insieme ai raìs cacciati dal potere o sul punto di esserlo. Wael Ghonin e i suoi compagni hanno in realtà decretato la prima morte del capo di Al Qaeda ignorandolo. Girandogli le spalle. I suoi cupi richiami non colpivano più le fantasie dei giovani egiziani, tunisini, libici, siriani, yemeniti. In qualche mese loro sono riusciti a detronizzare due raìs e a metterne in pericolo almeno altri tre. Osama Bin Laden non ha sconfitto nessuno. Con i suoi atti di terrorismo, con le sue minacce, ha seminato morte e paura. E ha soprattutto alimentato l´immobilismo di società giovani e impazienti. Perché al fine di controllarlo le potenze occidentali hanno finanziato i raìs incaricati di tenere a bada lui, Osama, e i suoi uomini. Raìs corrotti, invecchiati nei loro palazzi, protetti e serviti da forze dell´ordine spesso pagate dagli Stati Uniti. Ha ragione Abdulkhaleq Abdullah, professore di scienze politiche all´Università degli Emirati, quando dice che Osama Bin Laden ha contribuito a mantenere la miseria, a provocare le disfatte e a tenere nella stagnazione le società arabe. Incutendo il terrore e quindi il sospetto impediva riforme e aperture. Nessuno si fa tuttavia illusioni sul fatto che la morte del capo, per altro da tempo soltanto simbolico, segni la fine dell´azione terroristica. La sua rivoluzione è fallita. Ma i suoi seguaci sono ancora sguinzagliati nel mondo e sono in grado di seminare la morte. Se non altro per spirito di vendetta. Per il resto, i popoli che volevano sollevare non li ascoltano più: hanno fatto o stanno facendo la rivoluzione che Osama Bin Laden sognava e predicava. Ma non glielo hanno neppure detto. È stato un insulto. Anzi un´esecuzione, ancor prima di quella finale avvenuta in Pakistan, per opera del commando americano. L´arabo Osama è stato insomma "ucciso" dagli arabi.
Bernardo Valli - La Repubblica
SpoilerNEW YORK - «L´impatto di questo evento è enorme non solo su Al Qaeda ma su tutto il mondo islamico: l´uccisione di Bin Laden si aggiunge alle rivoluzioni tunisina ed egiziana, nel segnare la fine di un´ideologia». Fareed Zakaria, il più autorevole analista geopolitico per Cnn e Time, appena rientrato dall´Egitto, in questa intervista a Repubblica traccia il primo bilancio dopo la morte dello stratega dell´11 settembre. Perché Barack Obama ce l´ha fatta a centrare il bersaglio che a George Bush era sfuggito durante i suoi due mandati? «La fortuna gioca sempre un ruolo nella storia, e naturalmente l´ha avuto anche in questo caso. Ma una spiegazione cruciale sta nel fatto che Obama ha spostato nettamente le priorità: dall´ambizioso piano di "nation-building" di Bush è passato a una strategia coerente di antiterrorismo. Con questo presidente c´è stata una enorme concentrazione di risorse sull´antiterrorismo. L´aspetto più visibile è stato il potenziamento nell´uso dei droni in Pakistan, le cui missioni sono addirittura quadruplicate. Ciò è stato possibile anche perché Obama ha costretto il Pakistan ad accettare questa escalation. E dietro l´uso dei droni c´era molto di più, tutto l´arsenale dei mezzi a disposizione dell´antiterrorismo è stato rafforzato con una focalizzazione precisa di obiettivi. Rispetto ai piani di Bush di costruzione della democrazia in Iraq e in Afghanistan, con Obama si è passati a una visione più realista, una strategia in cui l´America si dava obiettivi più limitati, al servizio dei quali mobilitare tutta la propria potenza militare e di intelligence». La Casa Bianca si affretta a smorzare i trionfalismi: attenzione, ammonisce, Al Qaeda non è finita. «L´Amministrazione Obama ha il dovere di essere prudente, sta di fatto che la scomparsa di Bin Laden è un colpo micidiale, mette a nudo la debolezza di Al Qaeda. Senza il suo leader, il suo ideologo, ciò che resta di questa organizzazione rischia di diventare come i pirati somali: fanno dei danni, certo, ma nessuno si sogna di considerarli come una minaccia strategica per la sicurezza dell´Occidente». Quali saranno gli effetti nell´insieme del mondo arabo? «Saranno devastanti per Al Qaeda, perché si sommano ai movimenti in atto dall´inizio di quest´anno. Tutto questo grande risveglio del mondo arabo è avvenuto in termini ben diversi da come avrebbe voluto Al Qaeda. L´ideologia di Bin Laden aveva due presupposti fondamentali. Primo: che i regimi dittatoriali del mondo arabo si reggono grazie al sostegno degli Stati Uniti. Secondo: che l´unico modo per rovesciarli consiste nell´usare la violenza, per poi sostituire i vecchi dittatori con dei regimi islamici. Ma dalla Tunisia all´Egitto abbiamo visto in azione dei movimenti che sono stati non violenti, e non sono diretti alla creazione di regimi islamici. Tutto questo aveva già avuto effetti tremendi su Al Qaeda. Non a caso, dall´inizio delle rivolte tunisina ed egiziana non si è avuto un documento chiaro di Al Qaeda che desse una valutazione di quegli eventi». Per Obama, invece, questo successo arriva proprio mentre stava serpeggiando un certo malumore per la sua politica in Medio Oriente. Dall´Egitto fino ai casi più recenti di Libia e Siria, il presidente cominciava ad essere criticato per un eccesso di prudenza. Dai falchi di destra agli ultra-umanitari di sinistra, molti avrebbero voluto vedere una "spallata" di Obama contro i despoti... «Invece Obama ha tratto le conclusioni più corrette da questi eventi: che sono un risveglio del mondo arabo, non un fenomeno d´ispirazione americana. Io ho appena incontrato i leader che sono stati all´origine della rivolta contro Mubarak in Egitto e mi hanno ribadito questo concetto con chiarezza: "questa è la nostra rivoluzione", mi hanno detto, "lo è stata fin dall´inizio, non cercate di appropriarvene". Gli Stati Uniti tendono a dimenticare che l´orgoglio nazionale può essere una fonte di motivazione formidabile. Obama questo lo ha capito, anche per quanto riguarda la Libia. Qualsiasi cosa accada, è molto importante che quelle rivoluzioni rimangano in tutto e per tutto in mano a quei popoli, guai se dovesse essere la Nato a "deporre" un despota come Gheddafi». Come valuta gli eventi di questi mesi, fino all´uccisione di Bin Laden, nel quadro del declino dell´egemonia secolare degli Stati Uniti? Vede un filo conduttore tra l´annuncio di vittoria di ieri, e il discorso che Obama fece il 4 giugno 2009 all´università del Cairo, lanciando una nuova èra di dialogo con l´Islam? «Per capire l´intero fenomeno del risveglio arabo in atto da alcuni mesi, bisogna fare un passo indietro e ricordare che l´America è stata l´ultima di una serie di potenze imperiali in Medio Oriente. Prima ci fu l´impero ottomano, poi i colonialismi britannico e francese, infine la concorrenza Usa-Urss all´epoca della guerra fredda quando ciascuna superpotenza proteggeva i suoi Stati-clienti. Alla fine, erano rimasti gli Stati Uniti da soli. Ma negli ultimi sei o sette anni ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che l´America non avrebbe più avuto né la capacità né la volontà di esercitare il vecchio ruolo imperiale. Già nell´ultima fase di Bush cominciò una questa presa d´atto che l´America era ormai "dilatata" oltremisura dopo due guerre. Con Obama più che mai si è capito che il gioco imperiale alimentava ogni estremismo anti-americano. Questo è stato un fattore scatenante del risveglio arabo: le opposizioni hanno compreso che finalmente i dittatori non avrebbero più trovato sostegno negli Stati Uniti».
Federico Rampini - La Repubblica
Questa è una perla di rara lucentezza,peccato che ne sia venuto a conoscenza in ritardo :rotfl:
SpoilerPer chi volesse coglierla, lascio qui una provocazione geopolitica :look: Ve la gestite voi :sisi:
L'uccisione di Bin Laden - ormai poco più che un fantoccio, politicamente irrilevante se non dal punto di vista simbolico - rientra perfettamente nella nuova strategia globale americana. Che non è affatto idiota.
Gli Stati Uniti stanno lasciando l'Iraq e l'Afghanistan, e con essi, sostanzialmente, il Medio Oriente. L'uccisione di Bin Laden è stata concordata col Pakistan: ditemi dove trovarlo, lo facciamo fuori, diamo l'impressione d'aver vinto questa guerra - o, perlomeno, d'averla pareggiata - e leviamo le tende. Allo stesso modo, i soldati statunitensi levano le tende dall'Iraq, lasciandolo alla mercé dell'Iran. Un brutto colpo dal punto di vista economico e geopolitico (il controllo delle rotte attraverso le quali passa l'ottanta per cento del petrolio mondiale finirebbe a Teheran), ma inevitabile, per come s'erano messe le cose. Allo stesso modo, gli Stati Uniti non s'intrometteranno nelle faccende siriane e in quelle libanesi, lasciando in ambo i paesi carta bianca alla longa manus iraniana (Hezbollah).
A fare gli interessi americani in Medioriente saranno tre potenze regionali: Iran, Turchia e Israele. La minaccia nucleare iraniana - come è noto da tempo - sarà rivolta esclusivamente contro i paesi arabi. Nella "guerra" politica in corso tra Ahmadinejad e l'Ayatollah Khamenei sarà favorito quest'ultimo. La Turchia sarà allontanata dalla sfera d'influenza europea: dispone della credibilità necessaria a mediare in Medio Oriente per conto degli Stati Uniti. Israele si libererà presto del fardello palestinese (a settembre le Nazioni Unite voteranno l'indipendenza) ma resterà comunque in una posizione di potere tale da poter agevolmente controllare e minacciare gli arabi (insediamenti a Gerusalemme Est e Cisgiordania). Le tre potenze, assieme, terranno sotto controllo il pericolo del fondamentalismo islamico: hanno la forza diplomatica e militare per farlo.
Con i paesi arabi gli Stati Uniti terranno esclusivamente relazioni economiche (segnatamente con l'Arabia saudita), ed eviteranno con cautela le ingerenze e gli errori del passato. La bandiera a stelle e strisce non verrà più bruciata, il modello occidentale non più vissuto come una minaccia. I problemi del Nordafrica saranno affare europeo, così come quelli dei Balcani.
La guerra di civiltà sarà sventata. Hillary Obama avrà compiuto un capolavoro strategico e diplomatico.
Ottima analisi, anche se mi permetto di aggiungere che la "ventata di primavera araba" portata proprio dagli Americani sta avendo il suo effetto, nei paesi Nord Africani ma difficilmente attacchirà in Iran, li so cazzi per loro, anche perchè Ahmainejad non rimane solo dietro, certo non attacca Israele ma l'Iraq se lo piglia non possono farci un cazzo.
Jà, questo è bipartisan :look:
SpoilerLa Nazione del Top secret
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
NEW YORK - "Basta dettagli sul raid che ha ucciso Bin Laden". Non solo le foto: dalla Casa Bianca ora parte l'ordine di un silenzio-stampa più generale sul blitz del reparto speciale dei Seal. Troppe versioni si sono susseguite in questi giorni, troppe contraddizioni, troppi sospetti. La ragion di Stato interviene e mette un "tappo" alla verità? Nell'era di WikiLeaks l'improvviso ripensamento di Barack Obama sembra anti-storico, irrealistico. Ma l'America del Primo emendamento, la democrazia teoricamente più trasparente della storia, ondeggia continuamente nei suoi cicli storici di apertura e chiusura, con vittorie e sconfitte nella battaglia fra democrazia e segretezza. Mentre ieri Obama portava una corona di fiori a Ground Zero, era impossibile non ricordare quel che pensa tuttora il 42% degli americani: che la Commissione d'indagine sull'11 settembre "ha nascosto o rifiutato d'investigare prove cruciali che contraddicono la versione ufficiale su quell'attacco". E non sono i soliti seguaci delle teorie del complotto.
Uno dei più autorevoli giuristi coinvolti nei lavori di quella Commissione, John Farmer, si dissociò dalle conclusioni con parole che fanno rabbrividire: "Ciò che il governo e i militari hanno detto al Congresso, ai mass media e all'opinione pubblica su quel che sapevano allora, è quasi interamente falso".
Il conflitto tra democrazia e segretezza è antico quanto lo Stato moderno. Max Weber scrive: "Ogni burocrazia si adopera per
rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni. Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico". Ma nella storia americana la tensione tra il diritto di sapere dei cittadini e la voglia di segreto dei governanti ha avuto dei rovesci tumultuosi. Le due guerre mondiali mettono a confronto due presidenti democratici e progressisti, eppure molto diversi tra loro su questo terreno. Woodrow Wilson firma una severa legge di censura, l'Espionage Act del 1918, fonte di abusi gravi (centinaia di socialisti e pacifisti sono sbattuti in carcere per avere contestato il presidente, non certo per avere svelato segreti militari). Franklin Delano Roosevelt eredita quello strumento ma ne fa un uso più moderato: nel 1942 affida l'Office of Censorship al giornalista Byron Price, ex direttore dell'Associated Press, che opta per un'autocensura volontaria lasciata quasi interamente alla discrezione dei mass media. Questo non impedisce che il sospetto del segreto continui a macchiare episodi-chiave della seconda guerra mondiale: l'accusa a Roosevelt di avere nascosto i preparativi dell'attacco giapponese su Pearl Harbor o le prime notizie sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Le guerre sono il miglior pretesto per mettere la sordina alla trasparenza, e l'America passa da un conflitto all'altro: quelli "caldi" si chiamano Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan, ma incrociano i 40 anni della guerra fredda con l'Urss e l'arco della "guerra globale al terrorismo" secondo l'etichetta coniata da George Bush.
Il periodo dello scontro mondiale con il blocco comunista è ideale per le trame segrete: è l'epoca dei golpe sostenuti dalla Cia (come "l'altro 11 settembre", quello del 1973 in cui il governo democratico di Salvador Allende viene deposto dai militari in Cile). L'eliminazione di Mossadeq in Iran, sostituito dallo Scià (1953), la Baia dei Porci a Cuba (1961), sono i primi episodi di una lunga serie di "ferite" alla trasparenza. Non riguardano solo la sfera della politica estera e della Difesa, investono anche una tragedia tutta nazionale: l'assassinio di John Kennedy nel 1963. Quasi mezzo secolo dopo, il 70% degli americani restano convinti che la commissione d'inchiesta presieduta dal giudice Earl Warren abbia nascosto la verità, cioè l'esistenza di una vasta congiura interna contro il presidente.
Ma il pendolo oscilla violentemente nella direzione opposta negli anni Settanta. La trasparenza si prende una rivincita nel 1971 quando il New York Times pubblica i Pentagon Paper e inchioda la Casa Bianca sui risvolti segreti della guerra del Vietnam: "Il presidente Lyndon Johnson ha mentito sistematicamente alla pubblica opinione e al Congresso su un tema di primaria importanza nazionale". I Pentagon Paper sono al tempo stesso il segnale di una metastasi nella segretezza, ma anche l'occasione per mobilitare gli anticorpi. La Corte suprema difende il diritto a pubblicarli, il tentativo di censura è sconfitto. Farà scuola anche per le rivelazioni sul Watergate che portano alla caduta di Richard Nixon (1974). Più tardi un altro scandalo - il traffico clandestino Iran-contras, forniture di armi a Teheran per pagare i terroristi di destra in Nicaragua - rischia di portare all'impeachment Ronald Reagan e nel 1986 Charles Krauthammer su Time osserva: "La democrazia americana è allergica ai segreti. L'idea stessa di segreto comporta una condanna etica. La promessa democratica dell'apertura non si concilia con il mondo occulto delle diplomazie e degli intrighi militari".
Ma la battaglia per la trasparenza non è mai vinta una volta per tutte. Nel 1994 un'apposita indagine bipartisan del Congresso, condotta dalla Moynihan Commission on Government Secrecy, rivela dati inquietanti: "Ogni anno vengono generati 400.000 nuovi segreti, la cui divulgazione sarebbe teoricamente un grave danno per la sicurezza nazionale". È ancora poca cosa, rispetto a quel che accade in questa nazione con lo shock dell'11 settembre 2001. A quasi dieci anni di distanza, una monumentale inchiesta del Washington Post intitolata "Top Secret America" denuncia "un universo nascosto che cresce al di fuori di ogni controllo". Eccone alcuni elementi: 1.271 organizzazioni statali e 1.931 società private che lavorano su programmi legati all'antiterrorismo; 854.000 persone che si muovono nella sfera "top secret". La conclusione di quell'inchiesta è severa: "Il mondo occulto che il governo ha creato in risposta all'attacco dell'11 settembre è diventato così vasto e segreto che nessuno sa più quanto costi, quante persone impieghi, quante attività si svolgono al suo interno". Un episodio fondamentale nell'escalation della segretezza resta la guerra in Iraq, "legittimata" dal segretario di Stato Colin Powell alle Nazioni Unite nel febbraio 2003 con il celebre discorso sulle "armi di distruzione di massa di Saddam Hussein": prove false, ma a lungo coperte dal segreto.
Obama arriva alla Casa Bianca deciso ad aprire ampi squarci nel velo della segretezza, è il portatore di una cultura della trasparenza. Ma l'oscillazione del pendolo stavolta è breve, dura pochi mesi. Nell'aprile 2009 Obama rende pubblici gli interrogatori della Cia che hanno fatto uso della tortura sotto l'Amministrazione Bush. Ma nel maggio dello stesso anno, quando stanno per essere divulgate foto che documentano violenze dei soldati americani contro i prigionieri in Iraq e in Afghanistan, scatta già un ripensamento. Sotto pressione dal Pentagono, "per non mettere in pericolo i nostri soldati al fronte", Obama vieta la pubblicazione di quelle immagini. Né passa l'idea di aprire delle indagini sui reati perpetrati con il ricorso alla tortura. Obama dice che "è ora di ammettere che furono fatti errori, voltare pagina e andare avanti". Vince la ragione di Stato. Oggi di nuovo, di fronte alle reticenze sull'uccisione di Bin Laden, risuonano le celebri parole di Jonathan Schell, pubblicate nel 1971 sul New Yorker dopo la vittoria della trasparenza sui Pentagon Papers: "La questione è: chi ha il diritto di definire l'interesse della nazione? In una democrazia, questo spetta ai cittadini".