Saviano: ora mi fermo per un po'
«Maroni? Un errore arrabbiarsi»
Lo scrittore: dopo «Vieni via con me»
è tempo di ricostruirmi una vita
MILANO - Roberto Saviano, e adesso?
«Cerco di finire il mio prossimo libro. A essere sinceri, il mio vero capolavoro non sarà fare un'altra Gomorra o una nuova trasmissione per milioni di persone ma cercare di ricostruirmi una vita. Ce la sto mettendo tutta, ma non so come andrà a finire».
Via Mecenate, studi della Rai di Milano. A metà del corridoio che porta allo studio di Vieni via con me. Lo scrittore più famoso e discusso d'Italia appoggiato a una parete di linoleum. Sulla faccia ancora qualche traccia del ragazzo che è stato, fino alla primavera del 2006. Quando uscì il libro di uno sconosciuto che collaborava con ogni possibile testata napoletana, uno che aveva la fissa della camorra. Appena quattro anni fa.
Vieni via con me è finito. Il suo bilancio?
«Un miracolo. Quando l'abbiamo scritto pensavamo a qualcosa di spurio, magari più adatto al teatro che alla televisione. Non ci aspettavamo questo successo. Quando un monologo ha un picco di 11 milioni di spettatori, più di una finale di Champions, è davvero una cosa incredibile».
Dicono che lei abbia fatto ombra a Fabio Fazio.
«Errore. Il merito del successo è suo. Un grande creatore di televisione. Con la sua esperienza, Fabio ha saputo creare l'alchimia giusta».
Prima di partire vi siete lamentati tanto della Rai, ma non sembra sia andata così male...
«Ah no? Abbiamo davvero fatto il programma contro l'editore. Non c'era un gran clima intorno a noi, e continua a non esserci. Il bello è che ce l'abbiamo fatta nonostante questa Rai. Nonostante questa politica».
Vieni via con me è televisione militante?
«A me piace una definizione che i più snob considerano fastidiosa: racconto civile. Il nostro è stato un programma trasversale. I dati dicono che ci hanno seguito tanti giovani tra i 14 e i 24 anni. E che il pubblico era diviso in maniera equa tra centro destra e centro sinistra».
E la faziosità , presunta o meno?
«Per superficialità oggi si definisce faziosa l'espressione di un punto di vista. Mi sembra incredibile: avere un'idea significa essere di parte. Non si può esprimere una posizione senza che immediatamente sia data la parola al suo contrario, perché possa annullarla».
Lo rifarà ?
«E' stato bello, ma ora mi fermo. Esperienza durissima. Scrittura, prove serrate, memoria. E molta, troppa tensione che i dirigenti di Raitre ci aiutavano a sopportare. Non so se la ripeterò. Di sicuro non a queste condizioni. In una Rai come quella di oggi, mai più».
Maroni aveva ragione ad arrabbiarsi?
«Assolutamente no. Io ho raccontato le inchieste. Dire che non hanno portato all'arresto di politici leghisti, che ragionamento è? Un'inchiesta racconta un clima culturale, un modus operandi. La 'ndrangheta interloquisce con i poteri del Nord: dove c'è la Lega si rivolge alla Lega. Il problema principale del Nord non sono certo gli immigrati, come vogliono far credere, ma l'alleanza impresa-politica-criminalità . Il caso Desio lo dimostra. La Lega ha abbandonato la giunta dopo che un'inchiesta ha dimostrato che una parte di quella maggioranza faceva affari con la 'ndrangheta. E prima? Ignoravano? Il Nord Italia è sempre più infiltrato, piaccia o non piaccia alla Lega».
E poi Maroni cattura Antonio Iovine, il suo persecutore. Si è sentito in imbarazzo?
«Ma non scherziamo. Iovine non l'ha mica arrestato Maroni. Era 16 anni che lo cercavano. Il pm Federico Cafiero de Raho, dell'Antimafia di Napoli, uno degli eroi silenziosi di questo Paese, è la persona a cui deve andare il merito morale del contrasto ai boss casalesi».
Lo ammetta, ha pensato che quello di Iovine fosse un arresto a orologeria...
«In molti l'hanno fatto. Io non ci sto, detesto la dietrologia. Iovine era un capo, e adesso è in galera».
Perché Maroni sì e i pro life no?
«Perché raccontare una storia d'amore come quella tra Piero Welby e sua moglie Mina non significa affatto oscurare altre voci. Chi, dopo quarant'anni di sofferenza, ha chiesto di fermare la macchina a cui era attaccato non è affatto contro chi invece continua a sperare in quella macchina che lo tiene in vita. Il mio era un racconto d'amore, di sentimenti e di libere scelte. Non c'era nulla a cui replicare».
Il suo successo televisivo ha destato qualche invidia. Saviano in tivù fa venire le Gomorroidi, come dice Vauro?
«Lasciamo stare, dai. "Ma io già l'ho detto molto prima...", "Ma io l'ho scritto nell'89", "Ma è troppo lento, troppo veloce, troppo televisivo, troppo poco televisivo". Sono commenti che sento tutti i giorni. Un po' ne soffri, poi finisce che ne ridi. Veder nascere la bile perché grazie alla televisione arrivi a tante persone che in genere ignorano certi argomenti, in fondo, ti dà soddisfazione».
Pino Daniele è l'ultimo a dire che se lei fosse davvero "scomodo" l'avrebbero già ammazzata. Cosa ne pensa?
«Rispondo con le parole di Falcone: "Questo è il Paese felice dove per essere credibile bisogna essere uccisi". Io non me la prendo, perché credo si tratti di ignoranza, tipica di chi si accosta con superficialità a una persona e a un argomento che non conosce. Non so, mi verrebbe da dire: "Prima di parlare studiate di più"».
Fare televisione non è una dimostrazione di scarsa fiducia nelle sue possibilità di scrittore?
«Semmai il contrario. Anche raccontare storie in tivù è scrittura. Teatro, radio, cinema, televisione, fiction. Laddove si può comunicare io ci provo».
La grande speranza della sinistra?
«A volte questa cosa mi spaventa, a volte mi lusinga. Quando racconto delle gravi connivenze di questo governo con le organizzazioni criminali, quando intervengo per la libertà di stampa, dicono che sono di sinistra. Quando racconto dei dissidenti cubani, dei crimini del comunismo sovietico, sono di destra. Quando invito i migranti di Rosarno a non abbandonare l'Italia, torno di sinistra».
Scrivere è anche una attività privata. Saviano invece è ormai un personaggio pubblico, a stare bassi.
«Il Saviano privato? Mi fa sorridere questa espressione. Quando sei così esposto nessuno ti è a fianco, tutti ti sono addosso. Il Saviano privato deve nascondersi per difendere se stesso e non si fida di nessuno. Nessuno».
Si sente tirato per la giacca?
«Spesso. Quel che più mi colpisce è la paura dei politici. Molti di loro li ho visti terrorizzati all'idea che io scegliessi di servire il Paese, e non di scendere in campo, espressione orrenda che ha infettato la comunicazione politica, apparentando il Parlamento a uno stadio».
E Saviano, in che squadra giocherà ?
«Destra e sinistra, tutti vorrebbero che urlassi le ragioni degli uni e i torti degli altri. Non è il mio mestiere, la politica. Io mi considero un narratore. Uno scrittore di 31 anni, ecco quel che sono».