A tutto Zamparini: “Il calcio è il mio vizio più grande. Ho comprato il Palermo per una questione di vetrina. E su Galliani…”
Esuberante, eccessivo a volte, forse. Nessun pelo sulla lingua, e come sempre sincero. Negli anni Maurizio Zamparini ha imparato a farsi conoscere. Qualcosa da scoprire però c'è ancora. A La Gazzetta dello Sport, il patron del Palermo si è soffermato per una lunga e interessante intervista, a partire dai suoi vizi: "Il più grande che ho, più che altro l’unico, è il calcio. Costoso quanto il gioco o le donne, ma almeno ha un risvolto sociale: può regalare felicità. Venezia ha tutto, non ne aveva bisogno, ma Palermo sì e quando nelle mie preghiere chiedo scusa per quanti soldi ho buttato con questo giochino, mi sento meno in colpa pensando di aver dato attimi di godimento a tanta gente. Il vizio del calcio sta nell’autopiacersi: siamo, o perlomeno sono, vanitoso, amo apparire, essere riconosciuto per strada. Il Venezia lo presi per passione, comprare il Palermo è stata anche una questione di vetrina - ha confessato Zamparini - se non ci fosse neanche quella sarei un cretino, perché ci metto soldi, non vedo le partite se non registrate, soffro se si perde".
E poi qualche aneddoto particolare sul sesso: "Noi bambini di campagna vivevamo in mezzo ai tori e alle mucche, dunque a 5 anni ero già dentro un fosso con un’amichetta, si chiamava Ermelinda, a giocare al dottore, finché non ci scoprì un amico più grande con la minaccia di raccontare tutto a mio padre. Il Viagra l’ho consigliato anche a dei colleghi, tipo Sensi che mi ringraziò molto oppure Cecchi Gori, che una volta andò in crisi perché la pillola gli era caduta sotto il letto, e la trovò la cameriera la mattina dopo: 'Dottore, e questa cos’è?'. Gli uomini si vergognano di dirlo perché si sentono sempre machi, ma se funziona, perché no".
Un passato anche da calciatore per il presidente rosanero: "Avevo le gambe come stuzzicadenti, ma ero un grande colpitore di testa: l’elevazione non è tutto, conta di più il tempismo Avevo anche una buona tecnica. Giocavo mezzala, a volte punta: oggi sarei un trequartista, ma allora quel ruolo non esisteva. Altri sport? Ho seguito un po’ il pugilato ai tempi di Loi e Mitri, giochicchiato a basket in collegio. Oggi in tv guardo l’Nba, il basket che ha ucciso l’altro basket, ma in testa ho sempre avuto il pallone. Da quando avevo cinque anni: il campetto era proprio sotto casa e mia zia, che sposò un capitano inglese, da Glasgow mi portò un paio di scarpe da calcio alte fino alla caviglia e un pallone di cuoio, di quelli con le cuciture in rilievo, che quando colpivi di testa ti restava il segno sulla fronte. Mica quei palloni di gomma che avevamo noi, che un giorno il figlio del Pierin per calciarlo lo ridusse da buttar via, perché i contadini non si tagliavano le unghie e le aveva così lunghe che gli fece uno squarcio: era l’unico pallone del paese e ce l’avevo io, dunque le partite erano quando dicevo io e le squadre le facevo io. Ho smesso con il calcio giocato che ero in Interregionale, avevo solo vent’anni ma il sogno di mio padre era che facessi l’imprenditore: alla Bovisa c’era un’officina di marmitte per automezzi che mi aspettava".
Immancabile poi qualche frecciatina, come quella finale ad Adriano Galliani: "E’ figlio di suo papà, e non c’è bisogno che le spieghi chi è suo papà. Lo aiutai a diventare presidente della Lega, ma gli dissi 'adesso devi fare gli interessi di tutti'. Col cavolo: fece solo gli interessi del Milan. Come Berlusconi ha sempre fatto solo quelli di Mediaset".
