La premessa è che Švankmajer è un genio. Surrealista ad oltranza, tra i massimi esponenti della scuola d'animazione praghese (a dire il vero solitamente avvezza all'utilizzo di pupazzi e burattini, piuttosto che plastilina), ispiratore della poetica dei fratelli Quay (più elitari) e dei celeberrimi Terry Gilliam (nel caso specifico di Alice si pensi ai parallelismi con Tideland) e Tim Burton. La sua dimensione ideale è forse quella del corto (ne parleremo separatamente), almeno stando a questo adattamento della favola di Carrol che sembra risentire di un metraggio eccessivo (in ciascuna scena gli spunti sono meravigliosi ma ripetuti troppe volte). Le differenze con la nota versione disneyana sono molte: nel cartone c'era l'esaltazione del nonsense, dell'anarchia, della fantasia; quì sembra di assistere più alla fuga onirica di una bambina sola e depressa. Regna sovrano un forte senso di morte e tristezza: animali impagliati, ambienti bui, incomunicabilità. Insomma, se nel film del '51 sembrava palese un allegro omaggio al mondo degli acidi (era sceneggiato da Huxley), quì c'è puzza di eroina
Tanti momenti illuminati, troppe ripetizioni (discutibile anche la narrazione in terza persona), grandissimo fascino.
Voto: ****
