Gli incidenti al Gay Pride di Belgrado
Sono vestiti di nero come i black-bloc che Genova ricorda, ma il loro credo è il nazionalismo e i loro gesti sono di guerra. Gli ultrà serbi fanno dell’orgoglio patrio la loro bandiera e di ogni occasione una sfida. In questi giorni in cui si commemora l’anniversario della caduta di Milosevic – il 5 ottobre – gli estremisti sono in lutto per la fine della Grande Serbia e ricordano il tradimento della comunità internazionale che intervenne per salvare il Kosovo bombardando le terre sacre al nazionalismo di Belgrado. Ora che il paese inizia la faticosa procedura per entrare nell’Unione europea gli ultrà si concentrano sul passato, sulla tradizione e sui capisaldi dei valori nazionali. Domenica bande di estremisti religiosi ortodossi hanno aggredito a Belgrado i partecipanti al Gay Pride, avendo come alleati anziane donne armate di crocefisso. Alla fine oltre centocinquanta feriti, 71 arresti e un’inchiesta su Mladen Obradovic, il leader del movimento di destra Obraz (Onore).
Di formazioni paranazionaliste (e paramilitari) ve ne sono molte in Serbia, legate spesso a frange del tifo calcistico, che pescano nella nostalgia per un paese sconfitto e normalizzato. In un recente sondaggio i serbi hanno detto all’80% che il periodo migliore della loro storia è stato sotto il regime comunista di Tito (ma il 6% ha scelto l’ultimo dittatore Milosevic, morto nel 2006 mentre era sotto processo al tribunale internazionale dell’Aja).
Ieri gli ultrà che hanno interrotto la partita a Marassi inneggiavano alla passata potenza militare, alzando le tre dita della mano sinistra in segno di vittoria e innalzando lo striscione “il Kosovo è Serbiaâ€; le tre dita (pollice, indice e medio) simboleggiano la croce ortodossa e lo slogan Forza Grande Serbia, rappresentando le radici cristiane del nazionalismo, e ricordando anche le milizie cetniche che nella Seconda guerra mondiale si schierarono con le truppe di Hitler che avevano invaso i Balcani. Lo stesso saluto parafascista che le Tigri di Arkan – il leader delle truppe paramilitari degli anni ’90 che si faceva immortalare con un tigrotto, e un mitra, tra le braccia: e la cui moglie era la regina del turbo-folk, la musica tradizional-techno serba – facevano durante la guerra civile.
La tigre Arkan e i cetnici
Zeljko Raznatovic (Arkan) era un capo tifoso della Stella Rossa Belgrado e svolgeva attività spionistiche e criminali (la mafia balcanica ha sempre avuto forti interessi nel calcio serbo); con la guerra si ricicla come capo di truppe paramilitari.
La commistione tra sport, nazionalismo e attività militari è una miscela che la fine della guerra e i governi democratici che si sono susseguiti a Belgrado non hanno spezzato; il rimpianto per i territori persi con l’intervento internazionale e l’ultima sconfitta in Kosovo hanno solo alimentato l’orgoglio nazionalista degli ultrà delle curve degli stadi serbi e di un popolo che non riconosce il ridimensionamento del ruolo del paese. I primi a portare la bandiera di questo orgoglio patrio sono gli sportivi: le dichiarazioni feroci e le posizioni politiche estremiste hanno più volte creato imbarazzo anche in Italia, con le affermazioni di giocatori come Mihailovic (ora allenatore della Fiorentina) che non hanno mai rinunciato a dimostrare il loro attaccamento al paese.
Domenica la Serbia aveva battuto a Roma l’Italia per vincere il bronzo nei Mondiali di pallavolo; ieri per i tifosi estremisti al seguito della nazionale di calcio era l’occasione per ribadire la supremazia sportiva, inneggiare alla Grande patria che fu la Serbia, rovinare la serata agli italiani che parteciparono alla missione militare che difese l’etnia albanese del Kosovo dall’esercito di Belgrado. E forse tra loro c’era anche chi ha voluto affossare definitivamente la propria nazionale che, in crisi da tempo (anche perché sembra divisa in clan), ha ormai poche speranze di qualificarsi per gli Europei.
da il Fatto Quotidiano del 13 ottobre 2010