Chi glielo fece fare di mettersi con gente simile?«Mio padre aveva comprato il Corriere e per pagarlo doveva vendere i suoi alberghi di Ischia. Gli segnalarono un funzionario dell’Inpdap, Ortolani, con entrature nel mercato immobiliare. Nel suo studio, in via Condotti a Roma, trovai ad attendermi Gelli, che Tassan Din già conosceva, e Calvi. Schierati al loro fianco c’erano Alberto Ferrari, direttore generale della Banca nazionale del lavoro; Giovanni Cresti, provveditore del Monte dei Paschi di Siena; Gaetano Stammati, che diventerà ministro delle Finanze nel quinto governo Moro. Tutti piduisti, come avrei scoperto dopo. E tutti deferentissimi con questo Gelli, che in seguito ritrovai al Quirinale, a Palazzo Chigi, nella sede della Dc a piazza del Gesù, nell’ufficio di Carlo Donat Cattin, a casa di Giacomo Mancini. Dappertutto. Ovunque andassi, lui c’era. Gelli aveva organizzato il rientro in Argentina di Juan Domingo Perà³n ed era considerato l’uomo di fiducia degli Usa, dove tutti i presidenti, da George Washington fino a Barack Obama, sono massoni, come lei sa. A me sembrò un commendatore provincialotto. Il fatto è che se cercavo Calvi per essere ricevuto, manco si faceva trovare al telefono. Se invece lo chiamava Gelli, mezz’ora dopo ero nell’ufficio di Calvi. Idem con i ministri. Mi convinsi che fosse meglio non averlo ostile».
Non ho capito una cosa: la sua defenestrazione dal Corriere fu premeditata fin dall’inizio oppure i suoi nemici si limitarono ad approfittare delle circostanze?«Certamente fu decisa nel momento stesso in cui lo comprammo, luglio 1974. Io non decisi niente, non possedevo neppure un’azione. Avevo solo un brillante curriculum accademico: laurea col massimo dei voti a Pavia e specializzazione in media and communications alla Columbia University di New York. Nel 1971 ero l’erede designato del nonno. Mio padre mi nominò amministratore delegato della Rizzoli a 28 anni. Per arrivare al Corriere bisognava negoziare con la Dc. Segretario era Amintore Fanfani, che diede l’avallo a una condizione: “Dovete cacciare entro 24 ore il direttore Piero Ottone che ci ha fatto perdere il referendum sul divorzioâ€. Papà si dichiarò d’accordo e invitò Ottone a colazione nella sua casa di via del Gesù, me presente, per licenziarlo. Ma, giunti al caffè, gli rinnovò il contratto per altri tre anni». Da non credere. «Ottone aveva guadagnato 40.000 copie rispetto alla direzione di Giovanni Spadolini. E per mio padre, editore vecchio stampo, questo solo alla fine contava. S’immagini Fanfani. Giurò vendetta. Sparse la voce che eravamo inaffidabili, pericolosi e sovversivi. Per strangolarci bloccò il prezzo amministrato dei quotidiani e ordinò alle grandi banche, allora tutte statali, di chiuderci il credito. Così finimmo in bocca a Calvi, l’unico disposto a finanziare il gruppo Rizzoli».
Non potevate cercare di rabbonire Fanfani?«Mio padre aveva un limite caratteriale: la timidezza. Non volle affrontare la situazione a viso aperto. A Roma mandò me. Fanfani mi ricevette nella sua casa di via Platone, in terrazza. Era seduto su un divanetto a dondolo, ma i piedi non toccavano terra, per cui la moglie Maria Pia era costretta a spingerlo. Una scena ridicola che aumentò il mio imbarazzo. Mi ricoprì d’insulti: “Bugiardi! Irresponsabili! Incapaci! Cialtroni!â€. Non mi lasciò pronunciare neppure una parola. Concluse ammonendomi col dito: “Non venite a chiederci più nulla. Noi democristiani per voi Rizzoli non esistiamo piùâ€. E così fu».
Immagino la gioia di Ottone. «Ci ringraziò ossequioso. E tornò a fare il giornale che voleva lui. Tutti ne dedussero che l’eminenza grigia, la mente del ribaltone, il filocomunista fossi io. Mentre la regola di famiglia era sempre stata scegliere direttori bravi, talvolta di sinistra, come Arrigo Benedetti, talvolta di destra, come Edilio Rusconi».
Perché Giulia Maria Crespi, detta la zarina, pochi giorni dopo aver ordinato a Ottone di licenziare Indro Montanelli, che detestava, decise di vendervi il 33% del Corriere?«Le avevano scoperto un tumore al seno ed era spaventata per il futuro dei figli. Inoltre mio padre le fece un’offerta irresistibile, giacché prevedeva che una notevole parte dei 27 miliardi di lire le venisse versata all’estero».
Sta dicendomi che la signora non pagò le tasse? «Non ricordo se fosse già in vigore la legge Formica. Sta di fatto che una larga quota esentasse gliela depositammo in Svizzera».
La storia si ripete. Anche i Crespi nel 1925, complice il regime fascista, erano subentrati a Luigi Albertini nella proprietà del Corriere attraverso una serie di cavilli giuridici, proprio come Gemina e soci. «Sì, ma Mussolini dispose che ad Albertini, pur inviso al regime, venissero versati 6 milioni in oro, con i quali il direttore-editore acquistò la tenuta di Torrimpietra dove visse per il resto dei suoi giorni. Invece i puri della Repubblica democratica e antifascista hanno annientato e depredato un innocente. E ora non gli dicono: “Avevi ragione tu, scusa tanto, ci dispiaceâ€. No, gli dicono: “Ma dà i, sono passati quasi trent’anni, dimenticaâ€. Che cosa dovrei dimenticare? Che sono stato trattato da ladro? Che mio padre morì di crepacuore mentre suo figlio languiva da 102 giorni in una cella? Che mia sorella Isabella, appena diciottenne, fu indagata ingiustamente, privata del patrimonio e minacciata più volte di arresto, finché non si suicidò gettandosi dalla finestra per paura di finire in prigione? Che mio fratello Alberto subì due mesi di carcere e il sequestro dei beni per poi essere prosciolto in istruttoria? Che, siccome avevamo ceduto a una tipografia cecoslovacca le vecchie linotype del Corriere albertiniano, sono riusciti a imbastirmi contro persino un processo per aver venduto “materiale strategico†ai nemici del Patto di Varsavia?».
Neanche lo Stato le ha chiesto scusa? Non l’ha risarcita per l’ingiusta detenzione? (Smorfia di disgusto). «La Costituzione è una pura esercitazione retorica. All’articolo 27 stabilisce che il detenuto non può essere sottoposto a trattamenti contrari al senso di umanità . Be’, io venivo persino ricattato dal direttore del carcere di Bergamo, dovevo pagare per tutto, altrimenti neanche i pacchi col cambio della biancheria mi sarebbero arrivati. Una volta pretese il frigo nuovo, una volta la libreria, una volta un milione di lire. La visita di Indro Montanelli mi costò un televisore, se non ricordo male».
A rigor di codice dovrebbero restituirle l’intera Rcs, una soluzione che però a distanza di cinque lustri viene giudicata impossibile dai suoi stessi legali.«Non è più la stessa azienda, quindi punto alla “restituzione per equivalenteâ€, cioè a un indennizzo. Per non sbagliare mi faccio assistere dall’avvocato Romano Vaccarella, ex giudice della Corte costituzionale, che in passato ha difeso sia Silvio Berlusconi che Massimo D’Alema. Più bipartisan di così».
Il 20 gennaio era fissata la prima udienza. Com’è andata?«Rinviata al 16 marzo. La controparte sostiene che ha bisogno di tempo per studiarsi le carte. Singolare pretesto, dopo aver avuto a disposizione 26 anni. La tecnica non cambia: temporeggiare, dilazionare... Ma io sono qua. Non muoio».
Potendo, lei rivorrebbe solo il Corriere o l’intera Rcs? «Non nutro alcuno spirito di restaurazione. Non mi sono mai sentito un re scacciato dal trono che aspetta di riprendersi il potere con le baionette. Non voglio tornare fra chi s’è dimostrato incapace di solidarietà . Quei signori sanno bene che l’azienda l’ha fatta mio nonno nel 1909 e che io là dentro ho bruciato la mia vita».
Angelo senior diceva che «i soldi bisogna farseli perdonare».«E infatti lui ricostruì il collegio dei Martinitt dove aveva passato l’infanzia da orfano, regalò a Milano il padiglione della Mangiagalli, donò l’ospedale a Ischia. Su consiglio del suo amico Pietro Nenni, col quale giocava a bocce, fece risorgere dalle ceneri Marzabotto rasa al suolo dai nazifascisti, piantandoci una cartiera e le case per gli operai. A me non sono stati lasciati né il tempo né i soldi da farmi perdonare».
Che cosa prova la mattina sfogliando il Corriere? (Accarezza il bracciolo della poltrona). «Delusione. Lo dico da lettore. A che serve un giornale se non denuncia le malefatte dei poteri forti?».
Il suo Corriere lo faceva?«Fui insultato dal ministro degli Interni, Virginio Rognoni, perché avevamo svelato che lo Stato era sceso a patti col camorrista Raffaele Cutolo per ottenere la liberazione del dc Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse. Ciriaco De Mita mi sollevò di peso perché scrivemmo che a tre giorni dal terremoto in Irpinia gli inviati del Corriere erano gli unici soccorritori arrivati a Sant’Angelo dei Lombardi. Cercammo di favorire la trattativa con le Br per liberare Aldo Moro, e infatti nel diario della prigionia lo statista profetizza che sarei stato l’ultimo editore puro, anche se io preferisco editore professionista. Mio Dio, se ci ha indovinato...».
E tornerebbe a fare l’editore puro?«Sì. Se il caso me ne offrisse l’opportunità , ci penserei. Ma non del Corriere, non di un giornale in mano a un parlamentino di 17 azionisti lottizzati dai partiti».
Come se ai suoi tempi i partiti fossero stati estranei alla proprietà del Corriere... Suvvia. «Non dico di no. Ma a portarceli fu Tassan Din. Si legò a doppio filo col Pci per paura che venissero a galla le sue ruberie. Non parlo solo dei 150 miliardi fatti sparire all’estero. Parlo anche dei 7 miliardi che a mia insaputa prelevò dai conti della Rizzoli e regalò a Ortolani: è nelle carte processuali. Quando il 2 ottobre 1981 convocai un consiglio d’amministrazione per far dimettere Tassan Din, mi telefonò inviperito Adalberto Minucci, il deputato che ha fatto parte della segreteria di Enrico Berlinguer: “Questa è una manovra socialista! Porremo il vetoâ€. Subito dopo mi chiamò Calvi: “Il Pci vuole Tassan Din e io non intendo inimicarmi il partito più vicino alla magistratura. Quindi i miei consiglieri voteranno perché restiâ€. Lo credo bene: era suo complice». Una decina d’anni fa andai a Venezia alla Canal & Stamperia di Tassan Din per tentare d’intervistarlo. Rifiutò. Appariva terrorizzato. Si offrì persino di pubblicarmi un libro, nonostante fosse editore di cataloghi d’arte, pur di non dover rispondere alle mie domande.
Secondo lei che cos’altro aveva ancora da temere? «Con tutte le condanne che si ritrovava sul gobbo, gli sarebbero subito saltati addosso. Tassan Din aveva una sua genialità nel mantenere gli equilibri. Si barcamenava fra Gelli e Ortolani, due ladri di polli che non si sono mai occupati dei destini dell’Italia ma solo dei loro affaracci, ed era bravissimo a tenersi buono il soviet della Rizzoli».
Rappresentato da Raffaele Fiengo, leader storico del comitato di redazione.«Esatto. Il presidente Sandro Pertini m’aveva ingiunto di affidare il Corriere ad Alberto Cavallari, direttore del Gazzettino. Io non ero affatto d’accordo, anche per ragioni caratteriali: a Venezia, durante una scenataccia, s’era spogliato mezzo nudo in redazione. Da Bari, dove si trovava per il congresso della Federazione nazionale della stampa, mi telefonò Fiengo, avvertendomi che, se non fosse passato Cavallari, i sindacati avrebbero eretto le barricate».
In precedenza lei aveva nominato Di Bella, che era iscritto alla P2. «Io volevo Alberto Ronchey. Ma era troppo amico di Agnelli. E Calvi, che odiava il presidente della Fiat, si oppose. Dal suo punto di vista non aveva tutti i torti, considerato che un giorno l’Avvocato, reduce come il banchiere dalla spedizione dell’Armir, mi disse: “Era meglio se Calvi moriva durante la campagna di Russiaâ€Â».
Voi Rizzoli dovevate dar retta a Montanelli, che vi offriva Il Giornale gratis. Rifiutaste. «Perderete tutto quello che avete», vi pronosticò. «Papà voleva solo realizzare il sogno di mio nonno: avere un quotidiano. Montanelli se n’era andato dal Corriere perché per tre volte la Crespi aveva stoppato la sua nomina a direttore, preferendogli prima Alfio Russo, poi Giovanni Spadolini, quindi Piero Ottone. Quando venne a offrire a mio padre Il Giornale, si sentì rispondere: “Arrivi tardi. Ho già concluso con Angelo Moratti per il Corriere e sono in parole con la Crespi e Agnelli per le loro quoteâ€. Restai di stucco. Non lo sapevo nemmeno io. Da quel giorno Montanelli tolse il saluto a mio padre e non volle mai più vederlo».
Dove ha trovato la forza per non arrendersi? «In Melania, mia moglie. La conobbi nell’89. Craxi voleva vendermi un terreno vicino a Siena. Io non avevo nessuna voglia d’andare a vederlo, perciò m’inventai che stavo più male del solito. Bettino replicò: “Allora ti mando il mio medicoâ€. E arrivò Melania, che curava Craxi per il diabete. Una donna straordinaria. Mi ha dato due figli. Mi ha salvato la vita. Io ho cronicizzato in qualche modo la sclerosi multipla, lei ha sconfitto due tumori. Siamo due sopravvissuti».
Tornerebbe a Milano? «No. Un conto è costruire le città col cemento, un altro conto è costruirle con la cultura, i libri, i giornali. Mio nonno ha realizzato entrambe le cose: dopo la guerra rimise in piedi la Scala e Brera. I milanesi facevano la coda per omaggiarlo in via Montenapoleone. Ma appena hanno letto che suo nipote era un mascalzone, ci hanno creduto subito. Uscito di prigione, le grandi famiglie, che per un secolo ci avevano riverito, mi telefonavano prima di dare i ricevimenti: “Sai, non possiamo invitarti, metteresti in imbarazzo i nostri ospitiâ€Â».
Ha qualcosa da rimproverarsi?«La troppa ingenuità . Se non avessi commesso molti errori, non sarei finito come sono finito. Quante cose non rifarei!».
C’è qualcuno a cui vuol chiedere scusa?«A chi ho involontariamente fatto soffrire per tutte queste vicissitudini...». (La voce s’incrina). «A cominciare dai miei morti». (Adesso piange).
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it