Anzi, mo va mett proprio
L’amore per il calcio.
La rinascita della
squadra. I nuovi
business. Il patron
del Napoli spiega la
sua ricetta. Buona
anche per la città
COLLOQUIO CON AURELIO
DE LAURENTIIS DI GIANNI PERRELLI
La scena madre, che riassume il
senso di una felice avventura, si
dipana per le strade di Napoli
un paio di ore prima della partita.
Da un grande albergo sul
lungomare Caracciolo partono fra ali di
folla festante due pullmini che per scaramanzia
non vengono mai sostituiti. Sono
diretti allo stadio attraverso un itinerario
prestabilito lungo il quale si radunano migliaia
di tifosi. Al seguito, un centinaio di
motorini che sgasano a ogni incrocio in
segno di euforia.
Sul primo dei due veicoli domina la figura
di Aurelio De Laurentiis, il 62enne
produttore cinematografico che ha rilanciato
in tempi record il Napoli nell’empireo
dei grandi club. Insieme ai suoi dirigenti
e ai suoi ospiti galvanizza la folla assiepata
sui marciapiedi, risponde alle ovazioni.
«Il calcio», dice il vulcanico presidente
in un pomeriggio domenicale insolitamente
sgombro di impegni (il prefetto
ha appena comunicato il rinvio di Napoli-
Juventus per il maltempo),
«è un’emozione
che si vive anche fuori del campo.
Quando furono introdotti i tornelli davanti
agli ingressi del San Paolo convocai
io i tifosi quattro ore prima della partita
per spiegare le nuove procedure. Andai da
solo, senza scorte, e poi mi misi lì a discutere
della squadra come se fossi al tavolino
di un bar. L’altra sera, durante l’intervallo
di un film, ho dovuto rispondere alle
domande sul Napoli di centinaia di giovani
che mi avevano riconosciuto in platea.
La passione non si esprime solo durante
i novanta minuti. Una squadra è sulla
scena in ogni attimo della giornata perché
è l’espressione di una comunità. La
stessa partita si disputa in uno stadio virtuale,
molto più esteso del terreno di gioco.
Nel caso del Napoli può coinvolgere
attraverso tv, radio, Web e iPad quattro
milioni e mezzo di appassionati in Italia e
altri sette milioni all’estero. Sul piano del
business è un’opportunità eccezionale che
non si riesce ancora a sfruttare».
Si riferisce, naturalmente, alla sua battaglia
perdente per una diversa distribuzione dei diritti
televisivi.
«Abbiamo litigato mesi per la divisione
della torta. Io proponevo che la Lega Calcio
creasse un canale tv consentendo alle
società di gestire in proprio i diritti, senza
intermediazioni. Alla fine li abbiamo
svenduti per un tozzo di pane facendo un
favore a Mediaset. Le mie sono sempre
state considerate posizioni scomode».
Infatti ha la fama di picconatore.
«Al contrario, io sono un costruttore. Mi
sono studiato bene il prodotto calcio e venendo
da altre culture saprei come modernizzarlo
e farlo fruttare. Da una competizione
come la Champions League oggi
l’Uefa ricava solo un miliardo e 300 milioni
di euro l’anno. Se invece si varasse un
vero campionato europeo infrasettimanale,
parallelo a quello nazionale del weekend,
il fatturato dei grandi club verrebbe
moltiplicato. Alleviando i bilanci delle società
che sono quasi tutte in rosso. Anche
le rose andrebbero utilizzate meglio. È
stupido tenere in panchina o addirittura a
umiliarsi in tribuna tanti assi quando gli
squadroni potrebbero formare, come già
avviene in Spagna, seconde squadre iscritte
ai campionati di serie B».
Lei ha mai giocato al calcio?
«No, da adolescente praticavo il basket.
Ma fin da bambino sono stato un tifoso
del Napoli, anche se sono nato a Roma.
Mio padre, che era originario di Torre Annunziata,
mi portava a vedere la squadra
in trasferta all’Olimpico e io mi scompisciavo
dalle risate quando i tifosi trascinavano
in processione il ciuccio. Mio nonno,
poi, alla vigilia di Natale mi accompagnava
nei bassi dei quartieri spagnoli a visitare
i presepi. Solo qui, mi diceva, puoi
respirare l’aria pulita».
Come è nata l’idea di comprare il Napoli?
«Mi è venuta in America quando un
esperto di televisione suggerì a Rupert
Murdoch di fondare un nuovo network.
Sembrava un’idea balzana perché a quei
tempi era folle pensare di sfidare colossi
come la Cbs, l’Abc e la Nbc. Ma il progetto
era innovativo perché prevedeva di
concentrare in un solo canale news, sport
e spettacolo. Essendo un uomo di cinema
e un appassionato di calcio pensai di combinare
queste due fabbriche di sogni. Così
nel ’99 mi presentai con un assegno di
120 miliardi a Corrado Ferlaino, allora
presidente del Napoli. La sua risposta fu
una causa civile perché, a suo giudizio,
avevo turbato la campagna abbonamenti.
Dopo il fallimento della società tornai
alla carica nel 2004. Ricordo che da Capri
telefonai ad Alessandro Profumo, il capo
dell’Unicredit, per farmi finanziare
l’acquisto. Mi chiese se ero matto. Sai che
con te, mi disse, non ci tiriamo mai indietro,
ma il calcio è un mondo inaffidabile.
Anche la mia famiglia era scettica: chi te
lo fa fare? Però io ero talmente insistente
che Profumo si convinse. Ma era estate,
tutti in vacanza e il tempo passava inesorabile.
Alla fine decisi di finanziare personalmente
i 32 milioni di euro occorrenti
per comprare dal curatore fallimentare
soltanto un pezzo di carta con la scritta
Napoli. Cioè una scatola vuota».
La squadra era precipitata in serie C e la tifoseria
che aveva vissuto i fasti dei due scudetti
e di Maradona era depressa.
«Sì, ma alla prima partita contro il Cittadella
al San Paolo vennero comunque in
65 mila anche se rimasero per la mag-
gior parte della partita in silenzio per protesta.
Mi ero dato un quinquennio per riportare
la squadra in A. E un altro quinquennio
per rilanciarla nelle alte sfere.
Abbiamo accelerato i tempi. Con bilanci
mai in rosso. Con una strategia di marketing
che ha portato allo sfruttamento del
marchio su circa 600 prodotti. E poi mi
piacerebbe comprare e rifare il San Paolo
che è quasi un tempio per i napoletani. Ma
intanto, nel ranking dei club mondiali, in
quattro anni siamo passati dal 350.mo
posto all’élite dei primi trenta».
Sembra un film di Frank Capra, con l’inevitabile
corollario dell’happy end.
«Non è stato facile, mi creda. Non conoscevo
i meccanismi del calcio. Quando mi
parlavano di tattiche, di 4-4-2, chiedevo
da neofita se fosse roba da mangiare. Mi
sono accostato con grande umiltà. Imparando
che il lavoro di équipe conta perfino
più della disponibilità di un mito quale
per Napoli è stato Maradona. Ora mi
muovo bene sul mercato, come dimostrano
gli acquisti di Cavani, Hamsik, Lavezzi,
De Sanctis. Dialogo proficuamente con
l’allenatore Mazzarri, pur senza mai interferire
nella sfera tecnica. Ma ho dovuto
impormi delle rinunce. Facevo cinema
negli Stati Uniti. Mi ero appena costruito
una casa a Los Angeles. Non sono riuscito
a dormirci neanche una notte perché il
Napoli ha assorbito l’80 per cento del mio
tempo. I film continuo a produrli, ma in
Italia. Ora sta uscendo il nuovo lavoro di
Carlo Verdone. Poi a Natale sarà la volta
del 28.mo cinepanettone ambientato come
il primo a Cortina. Un genere popolare
amato anche dagli snob
perché è ridendo che si castigano
i costumi».
Quanto contribuisce il Napoli
a lucidare l’immagine appannata
della città?
«Ha acceso una luce. È assurdo
che una città con le
risorse di Napoli sia diventata
un caso internazionale
per lo scandalo dell’immondizia.
Non c’è problema
che non possa trovare
una soluzione. Ora abbiamo
un nuovo sindaco, Luigi
De Magistris, che mi
sembra un uomo pieno di
idee e di energie. Va aiutato.
La mia esperienza è la
riprova che si può operare bene anche in
contesti difficili. Una sfida molto stimolante
potrebbe essere il rilancio del porto
che ha fondali troppo bassi per fronteggiare
la concorrenza con Civitavecchia,
oggi preferita dai cargo cinesi. Il Sud è un
Eldorado potenziale per l’Europa. Certo,
ci vorrebbe una rivoluzione culturale».
Ha mai pensato di girare un film su Napoli con
Roberto Saviano?
«Naturalmente sì. Ci siamo confrontati
su alcune idee. Ma la possibilità di lavorare
insieme è ostacolata dalla sua limitata
autonomia di movimento. Quando realizzo
un film, io sono abituato a vivere in
stretta simbiosi con gli autori. Con Roberto
non sarebbe possibile».
Anche Berlusconi è arrivato al calcio dallo
spettacolo. C’è qualcosa che vi lega?
«Il cinema è un’attività più complessa della
televisione. Deve combinare la creatività
con le leggi dell’industria. Il piccolo
schermo consente di trarre profitto da
prodotti già confezionati. Bisogna però riconoscere
che Berlusconi è un fuoriclasse
dell’imprenditoria».
Come giudica la sua parabola politica?
«Nel ’94 si è buttato in politica per difendersi
e ha dovuto compiere un certo percorso.
Il problema è che destra e sinistra
non sono mai riuscite a realizzare un vero
compromesso storico che permettesse al
Paese di valorizzare il made in Italy dopo
il boom del dopoguerra. L’individualismo
ha prevalso sul bene comune. Così tutto si
è sfilacciato. Oggi l’Italia sta crollando come
Pompei».
Lei è mai stato tentato dalla politica?
«Mi hanno chiesto in tanti di candidarmi.
Recentemente, un gruppo del centrodestra.
Ma io sono intellettualmente di sinistra.
Producendo cinema, non potrebbe
essere altrimenti. Comunque no, la politica
attiva non mi interessa. In Italia è troppo
urlata. Mancano gli strumenti per poter
ben operare. E poi dovrei sacrificare il
mio amore per il Napoli e per il cinema.
Quando si seguono troppe cose, si finisce
per farle male». ?