Non sono un estimatore di Tarantino ma nemmeno un suo denigratore, l'ho sempre visto come un regista fuori dagli schemi, un soggetto in grado di triplogiocare in ogni sua pellicola: con se stesso, con il pubblico e con il cinema.
Cita e deride, santifica e demonizza, irride e rispetta allo stesso tempo.
E così anche Django unchained, versione che poco ha in comune con il quasi omonimo film uscito poco meno di mezzo secolo fa: il nostro rivede l'epopea dal suo, spesso non sempre originale (vedasi Kill Bill), punto di vista regalandoci un film che insieme a Pulp Fiction e Bastardi senza gloria compone la sua personale vetta, lasciando allo spettatore la facoltà di decidere chi viene prima e chi viene dopo.
Irriverente, comico e citazionista, un Tarantino in grande spolvero crea e demolisce il western rendendolo un susseguirsi di rabbia e pulp in un sistema quasi a catena che sistematicamente lancia su una giostra (o almeno quella che in apparenza sembra una giostra al più ignaro spettatore) immagini visivamente violente con un fare quasi tracotante.
Complice anche una prova attoriale sopra le righe di Fox e Waltz (una spalla memorabile) e Di Caprio nell'inedito ruolo del cattivo schiavista, è un film che colpisce per il suo maciullare con stile e per il ritmo incessante.
Non è Tarantino nel west, è il west con Tarantino.
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