bello lo spin-off di bruscolotti sul ruolo dell'intellettuale. giusto una decina di gg fa il mio amico Sergio usciva con questo post (come al solito lunghetto ma di grande scorrevolezza).
http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/11/ma-gli-intellettuali-esistono-che-cosa.html
chiedo a bruce ed alemao che ne pensano
Lo condivido in linea di massima e mi è piaciuto moltissimo che abbia preso come paradigma il romanzo di Dallas Mc Cord Reynolds, autore che in pochi conoscono, che assieme al più conosciuto Farenheit 451 di Bradbury offre una visione precisa e circostanziata sui rischi in cui incorre la società moderna se si priva del libero pensiero. Per quanto mi riguarda credo che il ruolo dell'intellettuale vada sempre contestualizzato e non decontestualizzato rispetto al periodo storico in cui ha vissuto/vive. Se ne può dare una definizione generica, ma questa spesso deve scendere a patti con la realtà che viviamo. Indendiamoci: la verità, la missione di cui è portatore l'intellettuale non può che essere quella descritta nell'articolo, ma il pericolo stesso che in molti degli intellettuali del passato hanno corso è stato quello di legarsi, sposarsi a un'idea, diventarne schiavi, dimenticandosi del contesto in cui vivevano, dal fatto che l'idea stessa è frutto di cambiamento, conseguenza naturale dell'attenta osservazione della quotidianità, risultato di un'attenta riflessione sulla stessa e così come la realtà sociale muta, è soggetta a cambiamenti, allo stesso tempo il rischio e pericolo che l'intellettuale non deve correre è quello di fare dell'idea un mero esercizio retorico, rendendola un feticcio immutabile e scollegato dai cambiamenti epocali, dalle conquiste sociali, dalle nuove rivoluzioni che sono avvenute (quella informatica ad esempio) che si verificano anno dopo anno, esibendola alle masse come una sorta di autocelebrazione. Per questo ad esempio apprezzo molto di più Camus rispetto a Sartre, del cui pensiero condivido poco o nulla.
L'intellettuale a mio avviso prima di essere portatore di verità deve essere attento osservatore, una sorta di cronista. Se perde di vista questo compito, questa missione, perde il suo ruolo, diventa altro. Nello specifico, riferendomi a Napoli, Francesco Rosi lo è stato con le "Mani sulla Città" più di certo revisionismo storico campano mosso da una rivalsa pretestuosa contro l'Unità d'Italia, pretestuosa perché incapace di rapportarsi con la realtà storica di allora prendendola a paradigma per spiegare le storture di quella attuale. A Napoli ce ne sono ben pochi che apprezzo. Chi sa descrivere, sa cogliere e interpretare la realtà, senza scadere nell'idealismo, senza diventarne schiavo, può dirsi per me intellettuale. Lo è molto di più Ermanno Rea, quando in "La Dismissione" racconta di un pezzo di città che viene smantellato che i libri di questi novelli Masanielli dell'orgoglio partenopeo o dello stesso De Luca.