Una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, benché il mondo scientifico inviti all'ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico.Secondo volume di una probabile trilogia sulla depressione (comprendente l'horror Antichrist e l'imminente porno Nymphomaniac), Melancholia è la declinazione fantascientifica dei collassi (artistici e biografici) del regista danese. Mentre in Antichrist il dolore esistenziale tracimava trasfigurandosi nel sadomasochismo demoniaco, stavolta porta il soggetto all'implosione, al ripiegamento su se stesso (anche in senso letterale, sul punto di morte). Per esprimere l'ennesima variazione sullo stesso tema, von Trier tripartisce l'opera: un prologo fatto di tableux vivant rallentati all'inverosimile (il confine tra l'effetto drammatico e quello patetico è purtroppo varcato) e una kubrickiana danza di morte tra pianeti; un primo capitolo dedicato a Kirsten Dunst, calata nell'atmosfera da dramma da camera tipicamente danese (Strindberg in teatro, Dreyer al cinema); il secondo capitolo in cui le due sorelle si lempiono e svacantano come vasi comunicanti, fino all'epilogo dal sapore pagano. Tutto ottimo materiale per un dramma intimista e metafisico, il problema finisce per essere proprio il regista: von Trier non riesce a stare "fuori" dall'opera, probabilmente il dolore messo in scena gli è troppo familiare. Finsce per porsi "nella" narrazione, con la sua macchina digitale ansiogena, incapace di fermare la realtà e farne immagine. Il bordo dell'inquadratura si sposta di continuo, è instabile. E' uno smarrimento registico di sicuro voluto (infatti il prologo pittorico è, all'opposto, un'ostentazione delle capacità compositive del danese) ma che proprio non incontra i miei gusti e che, forse obiettivamente, rende a tratti fastidiosa la visione.
Avrei preferito di gran lunga un atteggiamento più scandinavo.
Voto: ***